Kherson, Mykolaiv, Odessa. Tre pedine di un delicatissimo Domino, nel perverso gioco della guerra. Una linea a parabola di duecento chilometri unisce le tre città-chiave dell’Ucraina meridionale. La cronaca travagliata di questi due anni e mezzo di conflitto fra Mosca e Kiev ci racconta che Kherson è stata prima occupata dai russi e otto mesi dopo liberata dagli ucraini. Otto mesi anche di devastanti bombardamenti su Mykolaiv e di allerta quotidiana a Odessa. Nessun dubbio sui ruoli di aggressori e aggrediti. Ma, al di là dell’aspetto giuridico (la sovranità formale), da che parte sta la ragione? Quale sangue scorre veramente nelle vene di queste terre straziate?

La risposta giusta potrebbe darla Vladimir Bakhtov, artista e architetto ucraino, che fino al 24 febbraio 2022 ha abitato la casa che si era progettato da solo a Parutyne, minuscolo borgo agricolo a una quarantina di chilometri da Mykolaiv, nobilitato dagli scavi archeologici dell’antica colonia greca di Olbia. Qui, prima di scappare con la moglie Tatjana in Grecia, Bakhtov travasava nelle proprie opere – sculture, quadri, fotografie – una personale interpretazione del concetto di ucrainicità: “Vladimir avrebbe potuto scegliere tra la Rus’ medievale di Kiev, l’eredità turca, la cultura cosacca, la civiltà russa: tutti questi popoli hanno abitato il Sud dell’Ucraina. Ha scelto l’antica Grecia e da questa prospettiva costruisce la propria identità ucraina”, scrive Christian Eccher, che lo ha incontrato e ne riporta la testimonianza in “Kàrhozat. Storie di muri e frontiere”, per i tipi di Besa Muci (maggio 2024, pagg. 120, euro 16,00). Il libro raccoglie i reportage geopoetici in Ucraina, Moldavia, Transnistria, Bielorussia, Georgia, Armenia, Serbia e Kosovo, che l’autore ha realizzato dalla primavera del 2020 all’agosto del 2023. In mezzo, a segnare la storia e i destini di questi stati ipersensibili alle oscillazioni di umore e di rapporti fra le grandi potenze, lo scoppio della seconda guerra in Europa dopo il 1945 (la prima fu in ex Jugoslavia nel 1991).

Nato a Basilea, classe 1977, una solida laurea in Letteratura italiana a “La Sapienza”, allievo di maestri del calibro di Pedrag Matvejević e Tullio De Mauro, Eccher è oggi professore di lingua e cultura italiana all’Università di Novi Sad, in Serbia. Ha la vocazione e lo sguardo vagamente spiritato ma acuto dell’esploratore di mondi complessi, intrecciati, misti, confinari, periferici, spesso nevrotici, dei quali ci offre una lettura controcorrente, sfuggendo a ogni schematismo o pregiudizio. “Kàrhozat” è un termine ungherese che può essere tradotto con “perdizione” o “dannazione”, e via via che scorrono le pagine e le storie, se ne capisce sempre meglio il perché.

 “Una volta usciti da Mykolaiv – leggiamo – bisogna dimenticare che questi territori possano davvero appartenere solo alla Russia o all’Ucraina, con buona pace di Putin e Zelenski. L’area che si estende a nord del mar Nero è sempre stato un corridoio, una strada di passaggio di proprietà di tutti i popoli che hanno abitato quest’area: sciti, greci, romani, unni, turchi, cosacchi, ucraini, russi, rumeni, bulgari, nomadi delle steppe”. Nel sud dell’Ucraina, in altre parole, la Storia ha mescolato talmente i mappali etno-linguistici, da rendere tragicamente ridicolo ogni tentativo di riduzione a un “unicum” omogeneo. Si prenda Odessa, maestoso porto di mare dalla plurisecolare tradizione di accoglienza delle genti più disparate. Mark Twain, quando vi fece sosta nel suo memorabile viaggio del 1867 intorno al mondo, rimase piacevolmente stupito nel notare subito: “Guardatevi intorno, in alto o in basso, da una parte o dall’altra, vedrete solo una copia dell’America!», annota nel libro “The Innocents Abroad” (“Gli Innocenti all’Estero”) il mitico viaggiatore e scrittore originario del Missouri.

Con una punta di ironia forse non involontaria, Christian Eccher richiama in proposito l’illuminata politica di internazionalizzazione avviata dall’imperatrice russa Caterina alla fine del Settecento, dopo aver strappato Odessa all’Impero Ottomano, conferendole quella fisionomia di città multiculturale che l’ha sempre resa magica e attraente. Una lezione evidentemente dimenticata dall’aspirante nuovo Zar di Mosca, che dal 2014 in avanti non ha fatto che esasperare le presunte “inconciliabili” differenze tra filo-russi e filo-ucraini. Un assurdo, tipico del furore ideologico che nutre i nazionalismi e sovranismi di questo primo quarto di secolo, viene da osservare. Il professore-esploratore ne fornisce continue riprove, svelandoci territori e personaggi che dalla mescolanza di tradizioni e popoli traggono la loro forza mite. Come a Tarutino, nel Budzhak, l’antica Bessarabia all’incrocio fra Ucraina, Romania e Moldavia. Pur lontana dal fronte, la cittadina ha contribuito a difendere il Donbass con il sangue versato dai suoi plurietnici giovani, e si è distinta nell’accoglienza ai profughi di guerra. Merito anche di Svetlana Kruk, dinamica imprenditrice conosciuta in tutta la Bessarabia, di cui in “Kàrhozat” ritroviamo la storia. Finanziata da un professore di Amburgo è riuscita a realizzare il museo dei tedeschi autoctoni espulsi alla fine della Seconda guerra mondiale, e a ricostruire molte case abbandonate trasformandole in caffè, asili, centri culturali. “In questo momento, è importante dare lavoro – racconta a Eccher -. Da quando è cominciata la guerra, il 50% delle aziende di Tarutino ha chiuso”.

Più ci si sposta verso ovest, più la percezione del pericolo ne esce ora minimizzata ora ingigantita. A Leopoli, molto vicina al confine polacco, nonostante l’atmosfera di oziosa tranquillità e i caffè e ristoranti pieni di giovani che “chiacchierano e siedono sorridenti”, la guerra è presente “nei discorsi” della gente, nelle “magliette indossate dai turisti” ma anche “a causa dei numerosi soldati in licenza e dei mutilati che si aggirano per la città”. Qualcosa che, osserva l’autore, “ricorda Tel Aviv”. Il prof. Yaroslav Hrytsak, autore di un’apprezzata “Storia dell’Ucraina” tradotta in Italia da Il Mulino, spiega a Eccher che “la lingua non è un problema, anche se il russo sta pagando lo scotto delle scelte di Putin. La vera ragione per cui russi e ucraini non possono stare insieme sta nella cultura politica, che è completamente diversa”. A Mosca – puntualizza – governa un dittatore, mentre a Kiev comanda un presidente democraticamente eletto. E revocabile. “Se (Zelensky) dovesse sbagliare – conclude –  andrebbe subito a casa”.

Nell’area grigia fra Est e Ovest, a temere “di essere il prossimo” bersaglio delle mire imperiali moscovite è la piccola Moldavia, già ex repubblica sovietica, schiacciata fra Romania e Ucraina. Christian Eccher le riserva giustamente un capitolo dal titolo: “Alla periferia del conflitto”. Qualcuno gli parla di “paura che sfiora la paranoia ma assolutamente giustificata”. Il paese guarda all’Ue e alla Nato, ma la presidente filoccidentale Maia Sandu deve vedersela a Chisinau con la forte opposizione russofila guidata dall’ex presidente Igor Dodon (amico degli oligarchi putinani), e nel sud del paese con le civili rimostranze dei Gaugasi, popolazione di origine turca che “vorrebbe una maggiore autonomia e per ottenerla è pronta a chiedere l’aiuto di Mosca”. La minaccia più grave si chiama però Transnistria, provincia al confine con l’Ucraina staccatasi de facto dalla Moldavia dopo una brevissima guerra civile nel 1992. Un minuscolo irriducibile cuneo sovietico rimasto orfano dell’Urss, non riconosciuto dalla comunità internazionale, che ospita ancora una guarnigione militare russa e dista meno di centocinquanta chilometri da Odessa. La sua popolazione, dicono le interviste raccolte dall’autore, “aspetta con gioia l’arrivo dell’esercito russo”. La combustione della miccia è lenta, ma già innescata. Come lo è in Kosovo, altra latitudine e altro scenario, dove può bastare un nonnulla a scatenare le tifoserie dell’ultranazionalismo fra i serbi e gli albanesi. Come potrebbe persino avvenire in Bielorussia, qualora la popolazione riuscisse a sollevarsi di nuovo contro Lukashenko, imprescindibile vassallo di Putin. A quattro anni dalle proteste di massa per contestare i brogli elettorali e la diffusa corruzione, le repressioni continuano. “Nel caso in cui smettessimo, la gente si sentirebbe incoraggiata a tornare in piazza”, ammette a Eccher un esponente delle istituzioni coperto da anonimato.

La dannazione, la perdizione, il “kàrhozat”, è come un male oscuro. Possiede i malvagi e punisce gli onesti.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

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