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La sacrestia della chiesa di Ognissanti, a Feltre, conserva dal 1522 una Trasfigurazione di Cristo con i santi Antonio e Lucia, affresco di Lorenzo Luzzo detto il Morto da Feltre (confidenzialmente, il Morto).

La chiesa faceva parte del locale complesso neuropsichiatrico, ospitato in quello che un tempo era stato l’Ospedale di S.Maria del Prato e prima ancora un convento. Sicché all’epoca della mia breve escursione (anni 80) per visitare il dipinto dovevo “entrare in manicomio”.

Ci arrivo in motocicletta una domenica mattina mentre i ricoverati escono in passeggiata scortati da un paio di infermieri. Qualcuno si ferma al bar sull’altro lato della strada – tre tavolini contro il muro di un marciapiede in pieno sole – altri restano indecisi sul cancello aperto. Mentre scruto la guardiola cercando una divisa da portiere mi accorgo di essere osservato da uno dei pazienti, che ha evidentemente capito cosa cerco e muove deciso verso di me: “Vuole vedere il dipinto?” Con una piccola mancia e la benedizione dell’usciere si offre di condurmi alla sacrestia, compresa nell’alloggio delle suore.

Avanziamo piano percorrendo il giardino e dribblando i pochi ricoverati rimasti che mi chiedono l’elemosina. “Non stia a badare” dice la mia guida tenendo autorevolmente alla larga i più insistenti “qua dentro chi più chi meno siamo tutti un po’ così” e si batte sulla tempia l’indice della mano destra.

Mentre camminiamo insiste per raccontarmi la sua storia e mi parla del suo lontano paese di montagna – San Carpazio – soffermandosi sulla descrizione della linea ferroviaria che un tempo passava proprio di lì. Mi spiega con orgoglio che San Carpazio era l’unica stazione di una linea a scartamento ridotto soppressa dalle Ferrovie dello Stato nel 1968, e trasformata in pista di sci di fondo su proposta della locale sezione C.A.I.

Il percorso – orridi e forre per 43 km di silenzio e pochi tratti di sole – incrocia una piccola casa cantoniera, infila tre corte gallerie e comprende il casello n.47. La linea era stata utilizzata durante la grande guerra per il trasporto dei carichi di balistite verso i fronti orobici, al riparo dai ricognitori austriaci e dal loro gas nervino. Trent’anni dopo i partigiani della valle – suo padre era capo della brigata locale – se n’erano serviti qualche volta per motivi analoghi ma senza il treno: fucili e munizioni in spalla, fischia il vento scarpe rotte e così via.

Tuttavia secondo lui il percorso è frequentato malvolentieri dagli stessi sciatori, per la tristezza inquietante che il paesaggio assume nel periodo invernale, il freddo umido senza mai sole e la cattiva conservazione della pista. Inoltre quasi ogni mattina una nuvola maligna lunga e sottile va a infilarsi – dio sa come – proprio lì dentro avvolgendo tutto nella sua nebbia bagnata e misteriosa.

Infine – aggiunge sempre più eccitato guardandosi intorno che nessuno lo senta – il posto è visitato dagli spettri della montagna, anime di partigiani uccisi durante i rastrellamenti e rimasti insepolti nelle forre sotto la neve e che ogni tanto, prima di notte, escono a cercare rifugio nelle gallerie. Naturalmente faccio mostra di credergli.

A questo punto si ferma d’improvviso, mi fissa negli occhi stringendomi forte il braccio e mi sussurra concitato, quasi gridando ma sottovoce: “Questo lo dico solo a te, se passi per la stazione di San Carpazio la notte dell’Epifania (magari scivolando sulle squame dei vecchi Trak con una piccola brace fra i denti, mi immagino io) puoi ancora vedere sotto quel che resta della pensilina la piccola sagoma scura di mio padre, medaglia d’argento della Resistenza ed emigrante in partenza per Basilea dopo le vacanze di Natale. Lo riconosci dal cappello e dal cappotto nero, la valigia che gli sta fra i piedi e il mezzo toscano ancora appeso fra le labbra. E’ fermo lì da una trentina d’anni, capisce ancora la nostra lingua e se gli parli lentamente puoi portargli i miei saluti senza fare domande cretine. Ma gli devi dire che io sto bene, che sono ancora in sanatorio a Trento e non qua in questo manicomio, che presto tornerò a casa e che lui non deve vergognarsi di me”.

Gli assicuro che prima o poi lo farò (il racconto mi ha effettivamente trasmesso una certa inquietudine) quando finalmente arriviamo in vista della sacrestia. Deo gratias, anche lui torna improvvisamente calmo e sicuro come quando ci siamo incamminati.

La suora che ci accoglie lo congeda spiccia e gentile, estrae un rumoroso mazzo di chiavi dalla tasca del grembiule blu, mi conduce all’affresco attraverso un paio di stanze buie e si allontana veloce scusandosi e richiudendo, deve ancora finire le sue faccende e oggi è anche domenica.

In basso a sinistra Antonio veste il saio d’ordinanza e nasconde una mano in un viluppo di fiamme, secondo tradizione. Il maiale è ai suoi piedi, come un vecchio cane spento ormai incurante del mondo. All’angolo opposto Lucia regge in una ciotola i suoi bulbi probabilmente celesti, rivolta verso chi guarda. Cristo si erge trasognato in tunica bianca su uno sperone erboso al centro della scena, a concludere la consueta simmetria triangolare dei dipinti sacri, obbligatorio canone figurativo dell’epoca. I tre sembrano tuttavia ignorarsi del tutto. Il paesaggio è accennato in tenui colori chiari un poco tristi, alberi scarni e nubi gonfie appena scialbate di aurorale luce divina. Il cielo biancastro tra fine inverno e inizio primavera si accorda con la geografia e il clima del luogo. La luce della sacrestia è piuttosto scarsa e l’opera, poco illuminata, mi sembra bisognosa di restauro.

Diretto all’uscita immagino non troppo scherzosamente di trovare il cancello chiuso, di non essere riconosciuto dal nuovo usciere subentrato in turno, di non riuscire a convincerlo della mia identità ed essere quindi trattenuto come uno dei ricoverati – e dover affrontare di nuovo le storie di San Carpazio. La mia guida si è defilata, il mio vestiario da motociclista fuori porta non è molto diverso dal loro e i cellulari sono di là da venire.

Per quel che ricordo del collegio e della naia, il pranzo domenicale delle comunità prevede usualmente lasagne al ragù, pollo arrosto con patate, un quartino di rosso e infine il dolce, pan di Spagna con un velo di crema in cima e una riga di alchèrmes nel mezzo. 

Allungo il passo guardando in terra (forse una nuvola matta mi sta aspettando giù nella val Feltrina) ma nessuno fa caso a me quando esco dal cancello aperto.

Sia lode al Morto e a Franco Basaglia.

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