Durante la campagna per le recenti elezioni amministrative l’affollata piazza di Mogliano ha gradevolmente accolto Pier Luigi Bersani. Nel corso della serata l’ex ministro ha ricordato come più volte in Italia proprio dalle periferie, dal basso, siano salite indicazioni utili a possibili riforme nazionali in tema di politiche sociali e non solo, citando in proposito esempi significativi. Qualcuno in piazza si sarà chiesto se tale percorso funzioni ancora, se riesca ancora a funzionare. O se oggi questo ascensore sociale territoriale sia inceppato salvo eccezioni.
La celebrata legge elettorale dei comuni assicura ai sindaci maggioranze solide (a scapito della rappresentanza) e quindi in teoria ampi poteri di governo. Senonché restrizioni finanziarie, riduzioni di trasferimenti statali, tetti di spesa e vincoli di bilancio limitano il potere dei sindaci e le capacità d’investimento dei comuni (è quanto lamentano da anni i sindaci dell’Anci).
Nel ridursi dei poteri e delle risorse si vanno incuneando, in forme sempre più globali e volumi sempre più invasivi, i poteri e le risorse dell’investimento privato. Logistico, commerciale, immobiliare. In grado di barattare la propria invadenza con la prospettiva ipotetica di sbocchi occupazionali o con la realizzazione di opere pubbliche che l’Ente non potrebbe altrimenti permettersi. In questo caso all’utile economico corrisponde però un costo talora proporzionalmente gravoso, di natura più spesso ambientale ma anche perdita di “coscienza di luogo”. Luogo urbano o più spesso periferia o paesaggio di campagna. In tali frangenti la classe dirigente locale, per quanto motivata, è indotta ad accantonare il proprio potenziale di iniziativa politica e civile, di creatività sociale e di impegno ambientale a favore di un’inedita competenza negoziale contrattualistica nel ruolo di “produttore esecutivo”. Tutta un’altra palestra.
Buona parte della popolazione sembra altresì acconciarsi a più modeste aspettative nei confronti delle politiche di governo comunale.
Nella seconda metà del Novecento le amministrazioni locali progressiste erano all’avanguardia dei servizi sociali e ne traevano vanto sostenute da un’area politica che a partire da quelle eccellenze sfidava i governi nazionali. Secondo l’opinione pubblica prevalente il welfare non riguardava solo chi per necessità ne fruiva ma era un indicatore di progresso per tutti. La naturale osmosi fra città e concentrazioni di lavoratori presenti in territori limitrofi -o nella città stessa- alimentava e rafforzava le rivendicazioni cittadine (le lotte sindacali esondavano dalla fabbrica investendo i temi del trasporto pubblico, della casa, dei servizi sociali).
Oggi sembra piuttosto affermarsi, non solo presso l’elettorato moderato e i governi locali che da esso promanano, un approccio di governo rivolto a un utile ma modesto bricolage urbano manutentivo e ornamentale, attento a scansare progetti troppo impegnativi (se non barattabili con l’estrattivismo degli investimenti privati) e a disturbare il meno possibile.
Beni e servizi sono da tempo sottomessi a più o meno ibrida gestione privatistica; le politiche sociali sono allocate in poste di bilancio più o meno consolidate salvo iniziative sporadiche affidate al terzo settore, benemerito ma non vocato a garantire una strategia coordinata di welfare pubblico universalistico; restano in auge politiche di sicurezza passiva di dubbia efficacia che vanno esaurendo anche il loro potenziale propagandistico.
Se mezzo secolo fa, per valutare l’efficienza e l’efficacia di un governo comunale, più che i cantieri aperti si elencavano i servizi erogati, oggi non poche amministrazioni virtuose possono vantare esempi di buone pratiche in ambito ecologico e paesaggistico.
Si può ritenere che la difesa ambientale sia il tema che restituisce ai comuni un rinnovato protagonismo civile? Per conoscenza e competenza è possibile, ma ovviamente molto dipende dalla volontà politica, dall’indirizzo programmatico di chi amministra la città, dalla sensibilità di chi dispone del territorio e da quale cultura politica governa il Paese. Difficile credere che l’attuale esecutivo nazionale e la maggioranza che lo sostiene siano propensi a recepire esempi significativi di difesa ambientale e tradurli in provvedimenti efficaci possibilmente urgenti. Nonostante la drammaticità delle condizioni climatiche la compagine di governo ha pressoché rigettato tutte le indicazioni ecologiche europee, facendo di tale rifiuto una cifra del proprio pasticciato insediamento nelle istituzioni comunitarie.
Insomma, l’ambito amministrativo locale come luogo di esercizio di democrazia dal basso appare quantomeno in affanno. Le opposizioni progressiste di buona volontà, decurtate dal meccanismo di attribuzione dei seggi e frustrate dall’invariabile copione di sedute consiliari deserte di pubblico e di media, si attrezzano in proprio per rendere pubbliche le questioni dibattute in consiglio, al fine di informare e sensibilizzare la cittadinanza e nel tentativo di esercitare pressione sui meccanismi decisionali dentro e fuori la giunta. Se ciò possa essere l’innesco di una ripresa di iniziativa politica nella società locale o se resterà un rituale appuntamento informativo non dipenderà solo da loro. Un terreno già esplorato ma non sufficientemente messo a frutto può consistere nell’intrattenere rapporti più organici e operativi con il mondo dell’associazionismo soprattutto ambientalista, portatore di conoscenze specifiche ed esperienze di lotta ma privo -anche per scelta propria- di agganci relazionali con l’ambito decisionale della politica in senso stretto. Superare le diffidenze reciproche, elaborare forme di approccio comune nel rispetto delle specificità di ruolo e aggregare congiuntamente più ampi strati di pubblica opinione potrebbe rivelarsi utile nel tempo a scollinare la fase di stallo.
Mario Civelli, quando inviammo a tutti i consiglieri comunali una proposta relativa al consumo di suolo che teneva conto dei dati ufficiali di un’agenzia statale quel è ISPRA, nessuno, maggioranza e opposizione, rispose!