Non sorprenda il titolo di questo pezzo, non è una manifestazione di schieramento affettivo. Le elezioni che si svolgeranno presto negli Stati Uniti ci riguardano molto da vicino. La competizione tra Donald Trump e Kamala Harris non merita di essere rappresentata solo da una sceneggiata di un’ora e mezza, in onda tra un vecchio affarista sbrigativo e una candidata estratta in extremis dal cappello del mago, come coniglio di riserva.
Il fatto che Trump usi argomenti bizzarri, per screditare l’avversaria e le sue posizioni, qui ci fanno sorridere al pari di una vignetta comica: come quando Trump inventa orribili dicerie, del tipo che “a Springfield gli immigrati mangiano i cani e i gatti”; oppure quando escogita assolute falsità, secondo cui Kamala vorrebbe consentire l’aborto fino al nono mese (assurdità per altro esclusa a priori da tutte le leggi americane).
Questa è una lotta senza esclusione di colpi, al punto che il tycoon dal ciuffo biondastro ha utilizzato persino un’immagine falsa della star mondiale Taylor Swift, creata ad arte dall’intelligenza artificiale, per accreditare un presunto inesistente appoggio della cantante alla causa repubblicana. Bugia che ha comportato l’ufficiale smentita della cantante, rivolta ai suoi 283.000.000 di fans, e una dichiarazione di appoggio esplicito a Kamala Harris.
Ma il confronto in diretta, del 10 settembre scorso, ha poca rilevanza nello spostamento dei voti. Negli States, così come in Italia, le adesioni a uno schieramento politico si spostano con processi lenti e non certo per una performance più o meno riuscita. Comunque tutto serve e nulla si trascura in una competizione che si deciderà, nel sostanziale equilibrio di forze, per pochi voti.
A fronte di un elettorato sostanzialmente stabile, ogni candidato agisce quasi esclusivamente per ottenere la conferma dai propri elettori consolidati e per riavvicinare gli indecisi o i delusi della propria area. Nei fatti, più che le battute del momento, contano il sentimento elettorale rispetto ai temi dell’economia, l’inflazione, il problema immigrazione, la politica estera, le guerre in corso e qualche battaglia sociale.
Prendiamo atto che il voto americano non è soltanto un problema degli americani. La manifesta posizione di isolazionismo di Trump, in caso di sua vittoria, significa che gli States non sarebbero più disposti a sostenere l’Europa, in linea di principio, mettendo incondizionatamente a disposizione uomini e mezzi per un conflitto regionale che la vedesse eventualmente impegnata.
Questo significa che l’Europa, spezzettata com’è nei suoi meccanismi decisionali, deve arrangiarsi a trovare i mezzi e i finanziamenti preventivi per l’eventuale autodifesa. In primis significa distrarre risorse, o imporre tasse, o indebitarsi per gli armamenti. E organizzare una forza di dissuasione continentale. Non è una passeggiata, né possiamo ignorare la debolezza unitaria del gigante economico Europa che finora ha praticamente delegato alla Nato la propria assicurazione. Non si sa mai cosa riservi il futuro: i fiori nei cannoni sono appassiti nelle lande ucraine. Proprio Trump, sostanzialmente, è incline a chiudere anche la pendenza ucraina, magari strizzando l’occhio a Putin che considera un leader – come ebbe a dire nel luglio scorso – “intelligente e duro”, “dal “pugno di ferro”, “uomo che ama il proprio Paese”.
Sciorina nelle orecchie degli americani il gradito ritornello dell’abbattimento delle tasse, una ricetta che si basa sostanzialmente nell’ingrediente di farsi i fatti propri: America first, ovvero –come direbbe Sordi – “io so io e voi non siete un cazzo...”
Dunque attendiamo gli esiti, consci che per almeno tre mesi la potenza più importante del mondo sarà di fatto immobilizzata. Ma chi vincerà? Il metodo delle elezioni americane ha una coda di scorpione imprevedibile: non vince chi ottiene più voti popolari in assoluto (lo sa bene la perdente Hillary Clinton che ebbe nel 2016 quasi tre milioni di voti in più di Trump). Più o meno funziona così: si vota stato per stato e negli USA vige quasi ovunque il sistema maggioritario; gli elettori di ogni paese della Federazione votano a favore di uno dei due candidati opposti, ma solo il vincente manderà dei propri delegati (i cosiddetti grandi elettori) a scegliere per un presidente. I voti di ogni candidato sconfitto andranno dunque praticamente perduti e saranno solo i 538 i grandi elettori a decidere.
Vero è che ogni stato ha diritto ad un numero di delegati proporzionale alla propria popolazione (da 3 a 54), ma in questa fase finale il sistema attutisce i vantaggi degli stati con più abitanti.
L’economia americana sostanzialmente è in forma, ma i posti di lavoro non sono omogenei nel territorio, il prezzo delle case in quattro anni è aumentato del 40% con gravi conseguenze. Alcuni Stati del nord, un tempo probabilmente accreditabili alla fede democratica, oggi sono in bilico a causa della delocalizzazione verso gli stati meridionali che rappresentano la nuova economia, dove le maggioranze sono incerte. Per farla breve, dati per acquisiti gli orientamenti di gran parte della federazione, ci sono 7 stati oscillanti (detti swing states) che determineranno la vittoria finale, di cui la Pennsylvania è assolutamente fondamentale, specie per la Harris.
Quando pensiamo, secondo il cliché nostrano, alle divisioni ideologiche che dovrebbero separare con chiarezza le appartenenze ai partiti secondo il criterio delle classi sociali, siamo spesso vittime di schematismi che ci derivano dalla nostra storia. Destra e sinistra ci sembrano divise da steccati invalicabili e invece non è più vero: se in Italia ci stupiamo ancor oggi del fatto che gli operai votino per le destre, segnando in ciò un cambiamento di rotta che ha sconvolto le carte, tanto più la circostanza vale negli States.
In quel paese, infatti, dove l’ideologia di scuola marxista ha attecchito di meno che da noi, questa osmosi tra elettori è ancor più evidente. È un dato riscontrabile, ad esempio, che i latinos, cioè gli ispanici residenti nelle contee a ridosso dei confini col Messico, a suo tempo abbiano votato e fatto stravincere Trump: non si tratta di classi abbienti. Il fermo sostenitore delle barriere metalliche anti immigrazione convince coloro che, espatriati regolarmente, hanno lasciato dietro di sé la violenza ed oggi stimano come valore soprattutto l’ordine.
Anche una parte dei Black più integrati tende a privilegiare la ricetta repubblicana. Rifiuta il modello proposto dai democratici, dove la protezione delle minoranze assume talvolta i connotati radicali di un assistenzialismo generato da sensi di colpa dei bianchi. Mi spiego: questa è appunto la convinzione del prof. Shelby Steele, saggista nero che insegna alla Stanford University. Il complesso di colpa dei bianchi si manifesta con qualcosa come 83 miliardi di contributi a favore dell’organizzazione Black lives matter, talvolta versati, più che per convinzione, solo per dimostrare che non si è razzisti. Il professore definisce proprio il movimento Black lives matter (letteralmente: Le vite dei neri contano) un leader nell’industria della lamentela. L’organizzazione per i diritti dei neri era nata sull’onda delle proteste per il comportamento pesante delle forze dell’ordine nei confronti degli afroamericani ed ha ricevuto impressionante impulso dopo l’omicidio per soffocamento di George Floyd avvenuto in strada, a causa dell’intervento di un poliziotto improvvido.
Secondo il referenziato docente Shelby Steele, gli esponenti del BLM usano abitualmente le accuse di razzismo per spremere denaro. Fino agli anni ’80 la discriminazione razziale era una realtà tangibile, ma ora il senso di colpa ossessivo dei bianchi sta diventando uno dei problemi principali nelle relazioni etniche. Quindi esiste una forte comunità nera che reagisce e non si riconosce in tale movimento estremista, vuole affermarsi in base ai propri meriti e non per atteggiamenti paternalistici. Nega che esista ancor oggi un razzismo sistemico, e non ama più leggi come l’Affermative Action, nata sessant’anni fa e che concede tutt’ora -sempre secondo il docente – ingiustificati diritti alle minoranze (come l’accesso prioritario a college e università). In un paese dai forti connotati meritocratici si favorisce l’immissione oggi ingiustificata, di una generazione di studenti favoriti senza merito, solo in base al colore della pelle o della provenienza.
Quel che emerge è un’America contraddittoria, dove si confondono spesso i contorni di giustizia e libertà, espressione della propria natura multietnica e della stratificazione sociale.
Malgrado queste posizioni divergenti, rimane comunque più rassicurante, rispetto alla proposta inquietante di Trump, la visione dei democratici interpretata da Kamala Harris: certo contiene anche scheletri nell’armadio e delle pillole amare da digerire, come l’abbandono proditorio al suo triste destino dell’Afghanistan. Ma con tutti i limiti e i compromessi necessari nella guida di una potenza internazionale assillata da contraddizioni interne, ci appare comunque più in linea con i principi di eguaglianza a cui aspiriamo. Rappresenta il meno peggio che ci è consentito realisticamente augurarci. Sanità pubblica gratuita, diritti delle donne, politica estera e commerciale nel segno di una storica collaborazione aperta con l’Europa sono punti qualificanti di un atteggiamento. Ci risulta sospetta la politica sbrigativa di Trump che promette magari scorciatoie, come la chiusura miracolosa dei conflitti mondiali aperti, ottenibile attraverso qualche telefonata tra amici inverosimili. La sirena trumpiana, che lusinga, attira verso un mondo semplificato e inesistente. Usa l’incanto dei grandi seduttori populisti e le frasi ad effetto: non basta, nemmeno ci conviene.
Dunque guardiamo con interesse alle nostre elezioni americane, allontanandoci dal tifo insensato, ma attenti ai fatti, dove contano la ragionevolezza e non gli spot ad effetto. Ragion di stato permettendo.
Treviso 16 09 2024 – Grazie di questo contributo che condivido in pieno…