Il vero problema non è quando il confine fisicamente c’è. Lo si vede, lo si tocca, se ne sta asserragliato nelle sue fortificazioni e ci guarda, minaccioso, ostativo, non aggirabile se non per impervie e pericolose vie fraudolente. Le posizioni sono chiare, lui là, noi qua. Non si passa, se non con il passaporto, il visto, il controllo. Il problema si pone quando il confine scompare, (de)cade, viene abolito, archiviato. Quando è Shengen, quando ci illude e ci si illude, con la sua plastica assenza, di essere diventati o tornati liberi. Liberi di poterci spostare e comunicare con altri mondi senza restrizioni e permessi. Liberi di sbarazzarci della complessità, impegnativa, di cui sono impregnate le vite che vi gravitano attorno. In realtà, il confine non sparisce per decreto. È duro a morire come la gramigna, resiste tenace nelle menti, nei cuori, nei sogni e negli incubi dei suoi figli. Divora loro l’anima. Ne incatena l’esistenza a un ripetitivo rimpianto, o a una continua fuga, seguita da inevitabili ritorni. Attrazione e paura. Fascino e brividi dell’ignoto.
Come succede ad Alma, la protagonista del romanzo dall’omonimo titolo, di Federica Manzon, vincitrice del Premio Campiello 2024. Un successo per molti forse imprevisto (la giuria dei letterati l’aveva classificata al terzo posto, è quella popolare ad averla trascinata sul podio) per la scrittrice nata a Pordenone nel 1981, con un già nutrito curriculum letterario, ma ampiamente meritato e che non ha per nulla sorpreso chi “Alma” (Feltrinelli 2024, collana Narratori, pagg. 267, euro 18,00), la conosce già. L’ha seguita pagina dopo pagina nel suo viaggio pluridimensionale fra Storia (pubblica e privata), geografia, memoria (anche qui, non solo personale), e contemporaneità. Il mortificante “oggi” di una nuova guerra in Europa, dopo quella sconvolgente che trent’anni prima vede – nell’intreccio narrativo – la giovane donna andare a cercare a Belgrado una risposta plausibile ai suoi troppi e insoluti “perché”. Qui dove si calerà, esterrefatta, nell’operosa officina del male oscuro, il nazionalismo, per meglio osservarlo da vicino. Dove infilerà la mano nel cilindro maledetto dei Balcani – così prossimi alla porta di casa – e ne vedrà uscire le ombre avvelenate di Vukovar, Srebrenica, Sarajevo. Di ex Jugoslavia scriverà da giornalista anche la triestina Alma, con il taglio inusitato e competente di chi l’ha conosciuta bene sin da bambina, dai tempi della “fratellanza e unità” socialista, quando accompagnava papà alle isole Brioni. Per poi giurare di non volerne più sapere.
Non è solo una questione di stile espressivo che sa ammaliare, e di magistrale capacità di decodificare alla portata del lettore medio la complessità dei mondi che confluiscono a Trieste, rimescolandosi di continuo. Federica Manzon non si aggrappa al feticcio della “diversità” per farne una semplificata bandiera ideologica della società aperta, della quale è pure una limpida fautrice. Alma, anzi, fugge da quell’incrocio di culture e contraddizioni che hanno segnato la sua formazione giovanile, salvo farsi in seguito ricatturare da un richiamo ancestrale, biologico. Fugge da una famiglia caleidoscopica e conflittuale, frutto di “mondi antagonisti tra i quali toccava a lei tirare un filo che non facesse uscire tutti matti”. Fugge dalla madre, italiana e fortemente instabile, che con i matti veri, quelli “rivoluzionati” da Basaglia, ci lavora e trascina la propria vita nella snervante attesa del marito slavo, votato a un continuo nomadismo. Fugge dai benestanti nonni materni (di quelli paterni non ha mai saputo nulla) dalle asburgiche abitudini, che mal sopportano quell’unione fra “opposti”, e che tuttavia la amano come la figlia ideale che sua madre non è stata per loro. Ma Alma fuggirà soprattutto dal padre misterioso e bello, che fa la spola fra l’Est comunista dove lavora come ghost writer di Tito (lo si scoprirà solo a un certo punto del libro) e l’Ovest liberal-democratico dove tiene famiglia e torna anche senza preavviso (perché “solo qui posso essere chi sono”, confiderà alla figlia). Una scelta esistenziale, che nessuno in famiglia riesce a capire. Quel padre sfuggente e gentile le si rivolge chiamandola affettuosamente “zlato” (“oro”) e la invita a non stancarsi di cercare sempre la propria libertà. Fuggirà anche da un’altra presenza per lei importante e inquietante: Vili, con il quale cresce insieme nella misera casa di famiglia sul Carso, e diventa un quasi fratello, un quasi amante, uno specchio di tutti i suoi desideri, le sue curiosità, le sue sfide. Vili, dell’ex Jugoslavia andata miseramente in frantumi negli anni Novanta è un emblema affascinante quanto contraddittorio.
Non c’è bisogno di appelli – nemmeno subliminali – da affidare alle pagine di un romanzo potente e intenso senza risultare mai gravoso, per provare a fermare l’involuzione civile verso cui sembra avviato il nostro continente malato. Non serve sottolineare che ogni guerra, oggi come ieri, è crudele, ingiusta, assurda, costringe a scelte di campo incompatibili con la volontà di capire il “perché” e non solo il “come” essa accade. Alma è sconfortata nel rilevare la diffusa ignoranza della Storia, a cominciare dallo stesso giornale per il quale lavora a Roma (sempre citata come “la Capitale”, a segnare ancor più la distanza non solo geografica con Trieste), che le chiede di andare in Ucraina per scrivere “su quello che stava accadendo nel cuore dell’Europa, ma per lei il cuore dell’Europa non è così a est, è alle porte e incompreso. Non è però il tipo di osservazioni che puoi lasciarti scappare in clima di guerra”. Proprio così. Ragionare, distinguere, chiarire i dettagli, fare memoria della Storia, non è oggi possibile senza che ti chiedano “da che parte stai tu?”. E così Alma, in Ucraina, con tutto il suo “sacco di dubbi” ben pieno, non se la sente di andare.
Torna invece che ha ormai cinquant’anni, portati con naturale lievità, nella città del confine scomparso ma non per tutti (i fucili “quelli ci sono ancora, ma non per chi viaggia lungo le strade principali, i fucili sono per i viaggiatori a piedi, quelli che si perdono nei boschi di lupi e orsi, e quando gli uomini con i fucili incontrano gli uomini a piedi gli strappano di mano i documenti scritti in lingue che non sanno leggere”), richiamata da un inatteso lascito del padre. “Un post scriptum da recuperare. Qualcosa più di un’eredità, un ricatto per trascinarla indietro, proprio ora che i tempi stanno cambiando. C’è un’altra guerra alle porte, hai intenzione di scappare anche da quella? Non ne so niente, lasciatemi in pace”.
Neppure la maturità regala ad Alma la certezza delle verità facili, delle definizioni nette, della stabilità dopo tanto circumnavigare luoghi e tentare di sfuggire alla trappola delle origini, cercando sempre un altrove in cui ricominciare. “Lei non saprebbe dire dove sta la sua appartenenza, neanche la sua città lo sa: la chiamano ‘città di carta’ perché si è pensata sempre parte di una nazione che non era la sua, immaginava l’Austria, sognava il regno degli slavi, e perfino la nazione garibaldina, ma poi è rimasta estranea a tutto e soprattutto a se stessa”, scrive Federica Manzon. Il suo è lo sguardo privilegiato di chi – da friulana – è nata contigua al confine orientale, lo studia con cognizione, lo osserva con animo partecipe, sa entrarvi in naturale simbiosi, ma sa anche come mantenere il giusto distacco per non inciampare nella trappola identitaria. Per non farsi contaminare dalla peste ideologica dell’egoismo sovranistico-nazionale, che azzera il senso universale e solidale della parola “umanità”.