Negli scorsi giorni è passato in televisione un servizio molto interessante: nel 2013 un agricoltore ha deciso di smettere di coltivare il mais, monocoltura che in precedenza aveva seminato per 20 anni continuativamente, nel Comune di Carmignano di Brenta. Riguarda un appezzamento di 2,5 ettari. In collaborazione con Veneto Agricoltura lo ha convertito in una piccola foresta planiziale artificiale, chiamandola Bosco Limite: 2300 alberi. https://www.wownature.eu/areewow/bosco-limite/
La trasmissione mirava a descrivere quest’esperienza come un recupero di una naturalità perduta, con tutti i benefici conseguenti: quel terreno consente anche l’infiltrazione di oltre un milione di metri cubi l’anno di acque buone per alimentare la falda freatica, attraverso una canalizzazione che devia l’acqua proveniente dal fiume Brenta. La rigenerazione dell’area ha consentito anche l’insediamento di una fauna preziosa per la biodiversità, ha depurato il terreno, assorbe circa 50.000 kg di anidride carbonica per ettaro ed oggi l’investimento si sostiene anche economicamente. Tanti vantaggi che, di questi tempi di lotta al degrado ambientale, risuonano come campanelli d’argento.
Ma la cosa, a mio avviso più sorprendente, è l’insediamento nel bosco di una scuola materna particolare. In una costruzione in legno, volutamente di dimensioni contenute, vengono ospitati i bambini. La permanenza nel locale, tempo permettendo (ma anche se c’è qualche goccia di pioggia) è ridotta al minimo e tutte le attività si svolgono invece all’esterno. In pratica l’attività didattica poggia sul contatto fisico con l’ambiente circostante: trova spazio anche una montagnola di terra su cui i bimbi arrampicano per venire giù, magari, scivolando sul sedere; ritrovano la libertà di inventarsi i loro giochi senza ricorso a sussidi che non siano reperibili frugando intorno, alla scoperta. A poco a poco i bimbi acquisiscono padronanza dei movimenti. Sono liberi di sporcarsi quanto vogliono, di salire sulle piante, di sguazzare nelle pozze con gli stivali. In altre parole: accettato dai genitori il rischio di non avere dei figli da mantenere sotto una limitante campana di vetro, i bambini riacquistano il senso del territorio e una certa sicurezza. Le educatrici, comunque ragazze responsabili, sono coinvolte nel progetto e orientate a far riconoscere, a una generazione che ha perduto il rapporto con la fisicità, il piacere di vivere una specie di ricreazione a tempo pieno, come esperienza didattica. Sono rimosse le limitazioni iperprotettive, abitualmente imposte da una società sempre più virtuale e artificiosa.
Nel considerare quest’esperienza, viene spontaneo sorprendersi nel constatare quanto risulti necessaria una sterzata consapevole, verso modi di trascorrere la giornata quasi da monelli; un comportamento fuori standard che, certamente tra i viventi veneti, conobbe per esperienza soltanto chi abbia o abbia avuto i capelli grigi o bianchi.
Non sono qui a propagandare il bel tempo antico, ma rilevo i segnali di insofferenza verso un modello di vita ed educativo considerato evoluto, favorito da sirene economiche che, all’insegna della novità e della tecnologia consumista, ci incanalano tragicamente in un percorso obbligato sempre più stringente. Se è assodato che le innovazioni dell’elettronica hanno risolto un mondo di problemi, d’altro canto ci pongono un determinante punto interrogativo: abbiamo forse perduto il controllo su noi stessi e sta languendo l’animale che vive in noi? In parlamento si sta ipotizzando di vietare l’uso dei cellulari ai minori di anni undici, per la dipendenza che stanno provocando. Di contro si va sviluppando una robotica ergonomica per soccorrere l’umanità, per renderle la vita più confortevole con la domotica, oppure anche per sostituirsi in modo più efficiente al personale carente o troppo oberato: così, per esempio, si sviluppano progetti di assistenti virtuali nelle case di riposo, avanza la telemedicina, riceviamo velocemente le ordinazioni dal cielo attraverso i droni, ormai i treni possono viaggiare senza conducente. Pretendiamo di controllare con le telecamere ogni centimetro delle nostre città, per la cosiddetta sicurezza. Al tempo stesso ridicolmente ci inalberiamo per la violazione della privacy, ma finiamo per comunicare del tutto spontaneamente alla rete persino le nostre più intime emozioni private. Vogliamo e neghiamo contemporaneamente le medesime cose, persino i nostri diritti: occorre davvero far pace col cervello. Le prospettive di automazione appaiono senza confini, nel bene e nel male. Anche gli armamenti risentono di questo avanzamento: eppure, Einstein ipotizzava che la terza guerra mondiale si sarebbe combattuta con le clave, dopo che l’umanità avesse osato troppo nella sfida incosciente, da apprendista stregone, superando il limite che conduce ai disastri e all’autodistruzione.
La letteratura, come sempre in grado di ipotizzare scenari che appaiono fantastici e poi drammaticamente spesso si avverano, ha scritto parole inquietanti a riguardo dei pericoli incombenti sulla civiltà umana: centinaia di testi valgono come avvisi. Qui conviene rammentare almeno gli imprescindibili classici Mondo nuovo di Huxley (del 1932), l’ipercitato 1984 (del 1949) di Orwell e il più recente La strada (del 2006) di Cormac McCarhty. È sotto gli occhi di tutti la disperata corsa contro il tempo per frenare i cambiamenti climatici letali e la sostanziale cecità che spinge le potenze industriali a rallentare il processo di conversione, per non pregiudicare il cosiddetto sviluppo. Durante un convegno ebbi modo di cogliere una frase lapidaria di Zanzotto: disse che viviamo in un Grand Hotel sull’abisso.
Tra cercapersone che esplodono a distanza, riarmo nucleare e amenità varie condite di morti ammazzati e di false pietà, mi batte nel cervello in modo ricorrente il messaggio contenuto in un breve racconto che echeggia come un monito. È una specie di parabola distopica, per insegnarci a valutare criticamente certe aspettative troppo azzardate, le cui conseguenze imprevedibili sono già nelle tracce che possiamo presentire. Si tratta di un breve racconto dell’orrore scritto da William Wymark Jacobs e pubblicato in Inghilterra nel settembre del 1902, dal titolo La zampa di scimmia (The Monkey’s Paw):
I coniugi White vengono in possesso di un amuleto magico, all’apparenza è una zampa di scimmia disseccata, il cui potere è di realizzare tre desideri. Erano già a conoscenza dei poteri ambigui dell’amuleto, ma è troppa la loro smania di usarlo. Così la prima richiesta è di ricevere duecento sterline. Il giorno dopo i coniugi ricevono la notizia della tragica morte del figlio. Si tratta di un incidente sul lavoro per cui riceveranno il risarcimento assicurativo di duecento sterline. La perdita del figlio è insopportabile. Per secondo desiderio, la coppia tenta di porre rimedio al proprio errore e chiede che si compia un miracolo azzardato: superando i confini del lecito, chiedono alla zampa di scimmia che il figlio torni in vita. Dopo qualche ora si sentono ripetuti colpi alla porta. La signora White, in un impeto di speranza, si slancia ad aprirla, convinta che si tratti del figlio proveniente dal cimitero. Il signor White tenta di trattenere la moglie. Pur tardivamente, è assillato da uno scrupolo tremendo: teme un nuovo orrore, un altro tiro mancino dell’amuleto; teme, in particolare, che il figlio ritorni deturpato o, magari, sotto forma di zombie. Ma la moglie non vuol ascoltare ragioni. Disperato, all’uomo non resta altra alternativa che utilizzare l’ultimo desiderio per annullare il secondo. Aperta la porta, la strada si presenta vuota. La signora White si abbandona alla disperazione, mentre il marito è confortato nel pensiero di averle risparmiato un nuovo tremendo crollo psicologico.
Forse teniamo nelle mani una pericolosa zampa di scimmia che ci asseconda e ci inganna. Avremmo bisogno anche noi della consapevolezza di un certo signor White che ci preservi, almeno all’ultimo minuto, dal disastro a cui tendiamo ad avvicinarsi, senza valutare le conseguenze che pure possiamo immaginare. Proviamoci. Si può fare.