È impressionante il senso di impotenza che trasmette in questi ultimi anni l’armamentario di protezione della pace.
Dell’ONU si è già detto: una macchina gigantesca che ha il merito di consentire almeno un dialogo verbale tra potenze opposte, ma i cui risultati sono frenati dalla mancanza di una reale capacità risolutiva, affidati come sono alle mani di un organo come il Consiglio di Sicurezza che di fatto può decidere soltanto all’unanimità dei cinque membri permanenti con diritto di veto: Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia e Cina. Con questa impostazione gli altri dieci componenti a rotazione, con carica biennale, sono un utile complemento d’arredo. Diciamo che è meglio di niente. Di fatto nel mondo si è frazionata la leadership e le alleanze reciproche sterilizzano nei veti qualsiasi opportuna decisione.
Che può fare l’Europa? Assistiamo alla risibile sceneggiata di una rispettabile potenza economica regionale, troppo divisa e debole per contare sugli scenari bellici mondiali. L’impegno volitivo quanto inefficace sul piano pratico si riassume nella frase inconsistente, tanto cara anche al nostro ministro degli esteri Tajani: “Ci stiamo lavorando”. Ci stiamo lavorando sul massacro a Gaza, sulla prevaricazione dell’Ucraina, sull’infezione militare che si sta estendendo progressivamente al Libano e all’Iran.
Ci siamo assuefatti alla situazione irrisolta dell’Ucraina, intanto registriamo che azione e reazione sono automatici in questo Israele dominato dalle destre. Sembrano appartenere al loro corredo genetico o almeno ad un riflesso condizionato pavloviano e non badano a misura: Netanyahu continua ad approfittare del senso endemico di insicurezza del proprio popolo, per elevare il livello del conflitto ad un punto di non ritorno, giustificando in ciò il suo posto di guida politica e militare del paese e procrastinando la fine probabile della carriera politica. Su tutto ciò assume quantomeno valore morale significativo, tenendo in conto una certa formazione democratica del popolo israeliano, la richiesta dei mandati d’arresto da parte del procuratore del Tribunale Penale Internazionale, per lo stesso primo ministro Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant. Sono sospettati di “aver ridotto deliberatamente i civili palestinesi alla fame”, di “omicidio volontario” e di “sterminio”. Il mandato pesa anche su tre leader di Hamas, tra cui Yahya Sinwar, la mente strategica dell’eccidio del 7 ottobre e spina sul fianco di Israele.
Su questa brutta storia si innesta il coinvolgimento iraniano, storico nemico israeliano, che fino ad oggi ha protetto Hamas. Il governo iraniano, oggi temperato dalla presidenza di Masoud Pezeshkian, accreditato di timide inclinazioni riformiste, per come può esserlo in un paese teocratico oltranzista sottoposto alla Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, ha reagito all’’uccisione di alcuni leader politici di Hamas. Il più grave e lesivo del prestigio interno è l’omicidio di Isma’il Haniyeh, avvenuto proprio a Teheran; Israele, nella convinzione di sradicare Hamas e infiacchire il suo corrispondente libanese Hezbollah, ha aperto le danze anche nel paese dei Cedri di Dio. E dunque l’Iran, che pure non vive una situazione interna tranquilla, ha risposto ad Israele con un proprio lancio di missili: relativamente modesto e calcolato, tenuto conto dello scudo difensivo israeliano. Assistiamo ad un reciproco gioco pericoloso di equilibri bellici.
La macchia di sangue, intanto, si allarga: agli oltre 41.000 morti di Gaza, alle migliaia di feriti invalidati, ora sono da aggiungere le nuove vittime libanesi. Il diritto all’esistenza in pace di Israele non è da mettere in discussione, ma la negazione sistematica del diritto ad un’autonomia palestinese è una colpa gravissima, perpetrata con metodi i cui effetti devastanti pagheranno intere generazioni.
Una nuova guerra tra Iran e Israele sarebbe il disastro perfetto, perché incendierebbe tutta l’area, coinvolgendo anche paesi oggi silenti. Volutamente in ultima parlo del ruolo degli Stati Uniti: il gendarme del mondo di qualche anno fa, oggi è immobilizzato dalla circostanza di elezioni incombenti e dalla conseguente necessità di non perdere voti necessari. Sostiene Israele, storico alleato, garantendogli una superiorità militare in tutta l’area (la cosiddetta Qualitative Military Edge), ma senza entusiasmi per l’attivismo sopra le righe del suo partner: in sostanza gli Stati Uniti appaiono un leader a cui sono state tarpate le ali, che non può fare la voce grossa. Non si tratta di un doppio gioco furbo, sono propenso a pensare ad una reale difficoltà di muoversi: lo dimostrano le infinite missioni inconcludenti dell’emissario americano Blinken, gli inviti e le diffide modeste verso gli israeliani a non esagerare nei “mezzi correttivi”.
Certo agli Stati Uniti non dispiace di avere un alleato, Israele, che fa un certo lavoro sporco (e l’Iran è un elemento di disturbo), ma le dimensioni e soprattutto le modalità dell’intervento minacciato (bombardamento dei siti nucleari iraniani) non può che spaventare l’amministrazione americana. E il bombardamento ai pozzi petroliferi iraniani (altra soluzione ancora in valutazione) potrebbe scatenare una reazione a catena che forse coinvolgerebbe in distruzioni, per una ritorsione a quel punto inevitabile, anche l’area petrolifera filoamericana in Arabia Saudita, Kuwait e affini. A latere concorrono potenze militari come Russia e Cina, nell’insieme oggi paragonabili per influenza agli Stati Uniti, che sono sostanzialmente vicine politicamente all’Iran e potrebbero manifestare anche militarmente il proprio dissenso.
A chi giova tutto questo? Certo non si può negare che l’innesco con il massacro del 7 ottobre sia stato un atto dissennato e gravissimo.
Gli antefatti e quel che è successo dopo tendono ad annebbiare la serenità di giudizio, ma ciò che conta è il presente e soprattutto sono le prospettive future della gente, i cosiddetti civili: un ambiente dirupato e la costosa ricostruzione, i lutti insanabili: il veleno dell’odio sparso è a lento rilascio. Terribile è anche il cambio di mentalità che si sta producendo in Europa: volta a darsi un atteggiamento guerresco, difensivo, competitivo, ostile. La negazione di basilari principi di accoglienza risalta e ci sembrano così lontane le parole che alludono all’umanità buona.
Qualche anno fa mi trovavo in Iran, nell’antica città di Esfahan: era sera. Nel clima estivo intiepidito, molte famiglie serene stendevano dei plaid sopra ai prati pubblici della città, curatissimi, e soggiornavano conversando piacevolmente. L’impressione, fortissima, era di una città in pace con se stessa, sicura. Delle luci discrete illuminavano il seicentesco ponte Khaju, sotto le cui arcate si ritrovavano i giovani a ridere, forse a parlare dei propri amori, dei progetti: una scena che potrebbe ripetersi identica a Treviso in Cal Maggiore. L’immagine che proietta la televisione, la politica cattiva, gli interessi nazionali, ora mi appaiono violenti come quella di un sasso lanciato contro uno specchio. La bella gioventù iraniana si infiamma ancora per la poesia di Hafez, un poeta vissuto settecento anni fa, si reca ancora alla sua tomba in un giardino fiorito e la onora, come si onora una reliquia sacra. Desidero immaginare l’umanità, quella ricca di sentimenti puliti, trascendere la meschina crudezza dell’attualità e condividere questi versi immortali. Anche di questo cibo poetico si nutre quello che per alcuni è il nemico da eliminare; consideriamo che soprattutto l’umanità inerme è sotto gli spari.
Ero perso con lo sguardo verso il mare
ero perso con lo sguardo nell’orizzonte,
tutto e tutto appariva come uguale;
poi ho scoperto una rosa in un angolo di mondo,
ho scoperto i suoi colori e la sua disperazione
di essere imprigionata fra le spine
non l’ho colta ma l’ho protetta con le mie mani,
non l’ho colta ma con lei ho condiviso e il profumo e le spine tutte quante.
Treviso 06 10 2024 – Analisi ineccepibile. I mali vengono da lontano e la pace deve fondarsi su basi di giustizia e con uno spirito costruttivo…