Sono trascorsi vent’anni da quando è stato pubblicato per la prima volta dalla casa editrice Rizzoli di Milano il romanzo di Antonia Arslan “La masseria delle allodole“.
Un’opera straordinaria, che nel corso di questo ventennio ha visto quarantasei riedizioni ed è stata tradotta in oltre venti lingue, giapponese compreso. C’è stato anche un tentativo di pubblicazione da parte di un coraggioso editore turco, ma le copie sono state prontamente ritirate e ne è stata vietata la diffusione in Turchia.
L’autrice italo-armena, nata e residente a Padova, nella cui università è stata docente di Lingua e letteratura italiana moderna e contemporanea, nel 2004 ha dato voce, con questa opera prima in campo letterario, a quel ramo armeno della sua famiglia d’origine, che venne brutalmente sterminato in Anatolia nel 1915, nel corso del genocidio voluto e accuratamente pianificato dal governo ultranazionalista ottomano dei Giovani Turchi.
La storia della mite famiglia Arslanian, residente in una “Piccola Città” dell’Anatolia, dove è stimata e benvoluta da tutti, si fonde con la storia di tutto il popolo armeno, il cui martirio è narrato con la pacatezza di una “cantastorie”, che non istiga all’odio verso i carnefici, ma trasmette solo empatia per le vittime e il bisogno di testimoniare.
Per il pubblico di lettori italiani, sin da quella prima edizione, si è aperto un varco su un tema che era ancora in massima parte sconosciuto. Sconosciuto perché volutamente taciuto e tenuto nascosto non solo nel nostro paese, ma anche in altre democrazie occidentali, i cui governi, per lunghi decenni hanno ritenuto prioritario garantirsi l’alleanza e l’amicizia diplomatica con la Repubblica Turca dove, da Atatürk fino ad oggi, si è continuato ostinatamente a negare che un milione e mezzo di armeni ottomani siano stati scientemente sterminati negli anni della Prima Guerra Mondiale.
Dopo il 2004, proprio grazie al successo di questo libro, nell’editoria italiana sono aumentati in modo esponenziale i titoli relativi alla storia e cultura armene e al genocidio con opere di studiosi sia italiani che stranieri di cui sono stati tradotti gli scritti.
La stessa Antonia Arslan, tra i suoi diversi scritti, ha continuato a raccontare non solo le vicende della sua famiglia, ma anche a parlarci del genocidio: La strada di Smirne (2009), Il libro di Mush (2012), Lettera a una ragazza in Turchia (2016), Il destino di Aghavni (2022) hanno a loro volta visto ristampe e un grande riscontro di pubblico e di critica.
I Fratelli Taviani, affascinati dal contenuto dell’opera, ci hanno offerto una trasposizione cinematografica de La masseria delle allodole, una loro libera interpretazione, ma del tutto rispettosa dello spirito del testo e delle intenzioni dell’autrice.
Fin qui un essenziale bilancio, del tutto gratificante e positivo. Ora cercherò di chiarire in che senso, secondo il mio modesto parere, si può parlare di “attualità” di quest’opera.
Non si tratta solo dell’attualità, intesa come universalità di uno scritto che è destinato ad essere compreso e amato da più generazioni. Qui per “attualità” intendo l’oggi, fatto di una realtà amara, molto triste, in cui si percepisce che il genocidio armeno non fa solo parte di un passato remoto, ma potrebbe ripetersi.
Di recente, e soprattutto in occasione del centenario, quello armeno è stato definito “genocidio infinito”, proprio a causa del perdurante e arrogante negazionismo espresso da Ankara: tale negazionismo non ha mai consentito che il Grande Male degli armeni guarisse completamente. Di qui la definizione di “infinito”; questa resta una percezione psicologica e morale vissuta dagli eredi delle vittime.
Oggi però c’è chi paventa un nuovo genocidio, in base a dati di fatto, non ad angosce collettive scaturite da lutti non elaborati.
Il tutto è connesso alla complicatissima problematica relativa al Nagorno-Karabakh (Artsakh), una terra in cui la presenza armena risale al secondo secolo a.C. e da dove gli armeni che vi risiedevano da generazioni, se ne sono dovuti andare in massa meno di un anno fa.
Riassumere l’intera vicenda in poche righe è impresa più che ardua, ma, per chi non la conoscesse, ci proviamo. Ad ogni modo, poco strano se molti non conoscono tali vicende – alcune delle quali molto recenti – perché lo spazio che ne è stato dato dai mass media è sempre stato alquanto limitato.
Il Nagorno-Karabakh è una regione caucasica montuosa divenuta una enclave armena in territorio a maggioranza azero nel 1922, quando Stalin ricevette l’incarico da Lenin di tracciare i confini delle Repubbliche di Armenia, Azerbaigian e Georgia, nel momento in cui questi territori erano entrati a far parte della Federazione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Gli armeni del Nagorno-Karabakh (a seguito di un tracciamento dei confini volutamente incoerente da parte di Stalin che notoriamente non amava gli armeni) si trovarono ad essere circondati da una popolazione di etnia e lingua turca, di cultura e fede islamica.
L’aspirazione a distaccarsi politicamente dall’amministrazione di Baku e ad esser riuniti alla vicina Repubblica Armena non è mai venuta meno in questa piccola enclave armena, animata da un forte spirito identitario. Però, fintanto che esisteva il monolitico colosso sovietico tutto era inamovibile. Ci fu un primo concreto tentativo quando in URSS era al governo Michail Gorbačëv, ma al di là delle opinioni di Mosca, fu la Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian a porre una strenua opposizione, con veri e propri massacri di civili armeni nelle città di Sumgait e Baku. Massacri che non vennero previsti e bloccati per tempo dalle autorità sovietiche, pur essendo l’URSS efficacemente militarizzato e dotato di una polizia capillarmente distribuita in ogni città.
Quando l’Unione Sovietica si stava progressivamente sgretolando, le Repubbliche Sovietiche sia dell’Azerbaigian, che dell’Armenia proclamarono la propria indipendenza nell’estate del 1991.
Sappiamo bene che l’Unione Sovietica è stata ufficialmente dichiarata sciolta il 26 dicembre 1991.
Il 6 gennaio 1992 il Nagorno-Karabakh, con la denominazione di Repubblica di Artsakh, ha dichiarato la propria indipendenza, con capitale Stepanakert.
Di lì a poco è iniziata una guerra tra il Nagorno-Karabakh, supportato dall’Armenia, e l’Azerbaigian. Da un lato c’erano le istanze indipendentiste armene, dall’altro il rifiuto da parte delle autorità azere di riconoscere il Nagorno-Karabakh come stato libero e autonomo.
Nel 1994, le forze armene, pur essendo numericamente inferiori, hanno riportato una considerevole vittoria. Deposte le armi, viene quindi sancito un cessate il fuoco, con la prospettiva di giungere a un accordo di pace attraverso una mediazione internazionale (gruppo di Minsk).
Nel 1994, a fine conflitto, il Nagorno-Karabakh ha ampliato il proprio territorio, conquistando alcune province azere per garantirsi un territorio cuscinetto a protezione del corridoio di Laçin, una strada che già da prima collegava il Nagorno-Karabakh all’Armenia, ma lungo il quale la polizia di frontiera azera era solita posizionare estenuanti posti di blocco. Dai territori occupati dalle forze armene si registra un massiccio esodo degli azeri ivi residenti, e questo fattore peserà nel corso degli anni a seguire.
Trascorrono trent’anni senza che si riesca a firmare un trattato di pace, durante i quali l’Azerbaigian esige la riconsegna dei territori occupati dagli armeni e nega la legittimità da parte di Stepanakert di dichiararsi indipendente, mentre l’Armenia, a sostegno dei fratelli karabachi, fa appello al principio dell’autodeterminazione dei popoli, che ritiene prioritario e che vuol far rispettare ad ogni costo.
Un periodo molto lungo, durante il quale il Nagorno-Karabakh si è dotato di una costituzione, un sistema elettorale e istituzioni democratiche proprie. Si è anche aperto al turismo, grazie alle bellezze naturalistiche e al patrimonio artistico risalente al medioevo. Ha anche ricevuto l’appoggio di Onlus occidentali, che hanno aiutato il piccolo Stato a crescere nel campo dell’istruzione ed economicamente.
Nel frattempo l’Azerbaigian consolida una forte alleanza con la Turchia e, grazie alle enormi ricchezze naturali di cui dispone, è in grado di acquistare sofisticati armamenti di prima generazione, in quantità ingente.
La Repubblica d’Armenia, dal canto suo, pur migliorando le proprie condizioni economiche, resta un paese sostanzialmente povero, con un esercito dotato di armi convenzionali di vecchia fabbricazione sovietica.
Il 27 settembre 2020, mentre il mondo è ancora in emergenza Covid, l’Azerbaigian attacca il Nagorno-Karabakh, che viene subito supportato dall’Armenia, ma lo squilibrio tra le forze sul campo si rivela presto insormontabile per gli armeni. Le forze azere non solo si riprendono i territori precedentemente occupati dagli armeni, ma ne occupano altri, di vitale importanza per il popolo armeno.
Il 9 novembre Vladimir Putin, assumendosi il ruolo di mediatore, stabilisce che il Primo Ministro armeno Pashinyan e il Presidente azero Alijev firmino un accordo di tregua, che sottoscrive egli stesso, garantendo che forze russe di peacekeeping avrebbero presenziato nelle zone contese, almeno per cinque anni, e fintantoché le parti non fossero giunte ad un accordo definitivo.
Ma così non è stato. La Russia, fino ad allora percepita dagli armeni come un potente sicuro alleato, ha cominciato a dare sempre più palesi segnali di disinteresse al destino del popolo armeno. Quando città armene, confinanti con l’Azerbaigian sono state pretestuosamente colpite con bombe a lunga gittata dall’esercito azero, Putin si è fatto sentire con un notevole ritardo e dopo sollecitazione statunitense. Da quando poi il Presidente russo è concentrato sulla guerra in Ucraina, le sorti dell’Armenia non sono certo inserite nella lista delle sue priorità, e questo nel mancato rispetto dei diversi accordi strategici bilaterali siglati nel corso degli anni tra Russia e Armenia.
Arriviamo quindi al 19 settembre 2023. Sotto la definizione di “operazione antiterrorismo”, l’esercito azero sottopone a un massiccio bombardamento il Nagorno-Karabakh, già duramente piegato dalle conseguenze di una precedente manovra con cui è stato chiuso per mesi il corridoio di Laçin, lungo il quale transitavano persone e aiuti umanitari provenienti dall’Armenia. In questo attacco vengono colpiti molti edifici civili, ospedali, chiese, mentre gli occhi del mondo sono tutti rivolti a quanto sta accadendo a Kiev e nel Donbass.
Agli armeni del Nagorno-Karabakh non resta che fuggire con ogni mezzo possibile, e in questo caso, purché se ne vadano, il corridoio di Laçin viene riaperto al transito di una interminabile fila di auto, sulle quali queste povere persone hanno caricato quel poco che potevano a ricordo di un’intera esistenza trascorsa in una terra d’origine che non è più la loro.
Il 28 settembre il Presidente del Nagorno-Karabakh Arayik Harutyunyan si trova costretto a firmare un decreto che sancisce lo scioglimento delle istituzioni statali a partire dal gennaio 2024. Dopo questo atto ufficiale viene tratto in arresto dalla polizia militare azera e si trova tuttora imprigionato nelle carceri di Baku.
Oggi il Nagorno-Karabakh a tutti gli effetti fa parte dell’Azerbaigian e non esiste al momento alcuna prospettiva che possa riacquistare una qualche forma di autonomia.
Non è questa la sede per argomentare su responsabilità politiche, errori tattici, ingenuità da parte di chi forse avrebbe potuto prevedere tutto ciò ed evitarlo. A monte di tutto resta il fatto che quando il Nagorno-Karabakh, con la denominazione ufficiale di Artsakh, proclamò la propria indipendenza, a differenza di altri piccolissimi stati come il Kosovo, non ottenne il riconoscimento di nessuno, Russia compresa. Si trattava solo di un piccolo francobollo nascosto dalle foreste del Caucaso, privo di appetibili materie prime e rilevanza strategica e pertanto insignificante per il resto del mondo.
Coloro che hanno pagato duramente a causa degli attacchi del 2020 e del 2023 sono stati i civili armeni, con oltre 130.000 profughi e una schiera di orfani di cui si stanno occupando enti religiosi in Armenia. Ma non è finita.
Oggi, in questa terra ormai spopolata è iniziato, silente e sistematico un genocidio culturale: antichi monumenti, monasteri medievali, croci di pietra (gli inconfondibili khatchkar) stanno subendo una operazione di falsificazione d’immagine, vengono abbattuti, i toponimi cambiati. Un lento stillicidio che, nonostante le ipocrite assicurazioni di Alijev, si teme che possa portare a quanto avvenuto nella exclave azera del Nachičevan, altra terra anticamente armena, dove nel 2005 sono state cancellate letteralmente dalle fondamenta le inconfutabili testimonianze armene, a iniziare da una enorme necropoli a Nuova Giulfa, dove sono stati rasi al suolo e frantumati migliaia di antichi, preziosi khatchkar.
Si è detto della paura. Questa scaturisce non solo da quanto fin qui esposto, avvenuto nell’indifferenza più totale delle cosiddette “grandi potenze”(vedi G7), ma soprattutto da una frase, pronunciata e condivisa con orripilante baldanza dai due alleati, Erdogan e Aljiev, nel 2020, all’indomani della vittoria riportata contro gli armeni. I due dittatori dichiararono che quello ottenuto era solo un primo passo, dal momento che avevano tutta l’intenzione di “completare l’opera dei padri”. L’allusione era fin troppo chiara, per tutti.
Anche in tale circostanza, fatta eccezione per la Francia che ha gridato allo scandalo, evidentemente sollecitata dalla vasta diaspora armena ivi residente, l’Europa, gli Stati Uniti e vari leader politici mondiali si sono mostrati sordi, volutamente distratti e muti, dinnanzi a questa insidiosa minaccia, pur essendo sempre pronti a dichiarare la propria fedeltà ai valori della democrazia, della pace e della salvaguardia dei diritti umani.
Ecco perché quanto descritto dalla sapiente penna di Antonia Arslan e ambientato nell’Anatolia di 109 anni fa, è quanto mai attuale e può essere letto come un campanello di allarme e una accorata richiesta di ascolto e aiuto.