Sonnambuli a nostra insaputa

Tutto si replica. E a volte è bellissimo. Sopra ogni altro facimento, la vita che nasce da altra vita e segue e precede, per via naturale, la morte. Dopo l’una l’altra, in una staffetta continua fra ciò che è stato e ciò che sarà, garantita dal passaggio del testimone tra i “frazionisti” dell’esistenza (tutti lo siamo nel nostro piccolo perimetro, tutti compiamo solo un tratto di cammino): chi cede la fiaccola ha il volto affaticato dal peso del passato vissuto e concluso, chi la riceve una smorfia di concentrazione e un lampo di eccitata speranza nel futuro da immaginare e costruire.  Altre volte, la reiterazione degli eventi rappresenta invece un brutto e brusco ritorno a qualcosa che si pensava finito per sempre, non più riproponibile. Come la guerra, in special modo. Guerra sinonimo stesso di violenza e di morte, contro pace simbolo perenne di vita e di umanità. Oggi, è osservazione comune, la ruota della Storia ripropone con sempre maggiore esuberanza di casi, la “via armata” alla risoluzione delle vertenze fra Stati in alternativa agli strumenti tradizionali della diplomazia, troppo lenta e vincolata alle regole, e della politica, scaduta ad un livello mai così basso quanto a livello etico e a capacità di visione. Anche nella nostra Europa, purtroppo, già culla del diritto e simbolo di civiltà evoluta prima che la marea dei populismi ne avesse contaminato le fondamenta.

Gli errori dei leader, infatti, rischiano di generare, in prospettiva, nuovi orrori anche nelle società apparentemente più solide e aperte. D’altronde, come il trumpismo dimostra, imperversa il “gaslighting”, la manipolazione psicologica elevata alla massima potenza dalle moderne strategie di comunicazione, che vede l’affermazione crescente della propaganda sull’informazione. Il predominio della falsificazione sulla veridicità e fondatezza delle notizie. La diffusione di teorie cospirazioniste ha incrementato l’uso della parola gaslighting, rileva il rinomato dizionario statunitense Merriam-Webster, “per descrivere menzogne che fanno parte di un grande piano”.

A doverci preoccupare di più, però, dovrebbero essere le conseguenze di questa gigantesca industria sotterranea del raggiro dei popoli. Davanti a tutte, il rischio dell’autodistruzione collettiva alimentato dai tanti, troppi politici – non solo di destra – che soffiano sul fuoco della conflittualità, alimentando un clima da “armiamoci e partiamo”, in quanto non resterebbe altro da fare per fermare il tiranno d’Europa, domiciliato al Cremlino. Peccato però che, come avverte con raggelante e sofisticata ironia Domenico Quirico su La Stampa del 29 novembre, “per i compilatori in pantofole dell’arte della guerra (…) è il momento cautamente annunciato, previsto, diciamolo pure atteso: si marcia, scendiamo in campo, dunque arruolatevi.” L’analisi di uno dei migliori inviati italiani sui fronti caldi del mondo è annunciata da un titolo crudo, “La guerra è arrivata in Occidente e noi siamo già potenziali reclute”, che in sé racchiude l’inoccultabile ambiguità del tempo presente: l’alimentazione scellerata e continua della guerra per procura in Ucraina, con il silente o piuttosto inconsapevole assenso delle opinioni pubbliche occidentali, a dispetto dei sondaggi indipendenti dai quali emerge, a domanda, la loro esplicita contrarietà alla continuazione del conflitto russo-ucraino e ancor più a un eventuale coinvolgimento diretto.

Ecco allora che i “conduttori della Grande Alleanza”, come li definisce Quirico riferendosi al losco intreccio fra politici-affaristi-speculatori, hanno invitato “quelli che un tempo si definivano gli operatori dell’intelligenza” a procedere per “piccole ma inesorabili dosi, giorno dopo giorno ma aumentando la velocità degli annunci, delle necessità, in modo che non ci sia tempo per ragionare, riunire i tasselli, esigere spiegazioni”. Quale esempio migliore di moderno “gaslighting”? Di passaggio ipnotico dalle confortevoli pantofole domestiche ai pesanti “scarponi nel fango” del combattimento? Gli imbonitori europei più convinti – ma speriamo non convincenti – hanno il volto dei democraticissimi numeri uno francese Emmanuel Macron e britannico Keir Starmer, che starebbero vagliando l’ipotesi concreta di inviare truppe occidentali in Ucraina da schierare al fianco dell’esercito di Kiev. Il sigillo alla politica del “no appeasement, please” l’ha apposto infine un baldanzoso Mark Rutte, neosegretario della Nato, affermando che “l’Ucraina ha bisogno di meno idee su come organizzare il processo di pace e di più aiuti militari, per far sì che quando decida di aprire i negoziati sia in una posizione di forza”.

D’altronde, non è un caso se Antonio Scurati, nel suo accurato saggio “Guerra. Il grande racconto delle armi da Omero ai giorni nostri”, giunge alla conclusione che gli attentati dell’11 Settembre alle Torri Gemelle, lungi dall’aver favorito una “nuova stagione delle relazioni internazionali, un’era votata al pacifismo evoluto e intraprendente”, hanno al contrario riconsacrato la “guerra quale versante virtuoso, trasparente, glorioso della violenza in quanto contrapposto al versante oscuro, vigliacco e maligno rappresentato dal terrorismo”. Se ciò è vero, non può che suscitare tenerezza la domanda che si pone un vecchio meraviglioso come Edgar Morin nel pamphlet “Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa”, quando scrive “è sorprendente che in una congiuntura così pericolosa, il cui pericolo aumenta continuamente, si levino così poche voci in favore della pace nelle nazioni più esposte, in primo luogo quelle europee”. L’ultracentenario filosofo francese può ben permettersi di stigmatizzare i media occidentali che condannano “l’idea stessa di pace come putiniana e alla stregua della capitolazione di Mosca”. Ipotesi oggettivamente irrealistica, alla luce della lenta ma costante rimonta russa sul vasto fronte ucraino.

Su un’analoga lunghezza d’onda si pone un altro reporter e narratore d’eccezione come Paolo Rumiz, che nel marzo 2022 scriveva “oggi per la prima volta dal ’45 la guerra non è più una cosa che riguarda gli altri. Stavolta, più che con la guerra jugoslava, ci sfiora l’idea che potremmo diventare profughi anche noi. Sarebbe un peccato scoprire solo quando è tardi il sapore dolce della pace”. Altro che “armiamoci e partiamo”, quindi.

Un ultimo consiglio di lettura, Karl Popper “La lezione di questo secolo”, un libro-intervista di Giancarlo Bosetti scritto più di trent’anni orsono, da cui ci limitiamo a estrapolare una brevissima citazione, là dove il filosofo della “società aperta” ci ricorda che sono state “create le condizioni di base per realizzare la pace sulla terra. Ma una condizione necessaria è che i russi collaborino (il corsivo è suo). Se collaborano potrà realizzarsi, forse, il sogno di Churchill e Roosevelt non solo in Europa, ma in tutto il mondo”.  Quelle riportate saranno pure voci nobili di isolati visionari, grida pur autorevoli di inascoltati profeti nel deserto dell’indifferenza e soprattutto dell’inconsapevolezza dominante. Ma a che altro servono la letteratura e il buon giornalismo, se non a risvegliare le coscienze, destare i sonnambuli, inducendoli ad abbandonare la rassegnazione apatica per provare a opporsi a questo automatico impulso collettivo alla catastrofe?

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

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