Un’ipotesi per capire perché manca l’universalità della fraternità.
Vivere nel profondo la fraternità non è un’esperienza che proprio tutti gli umani possono reggere, perché il nostro essere il legno storto richiamato da Kant e ricordato da Isaiah Berlin nel suo libro “Il legno storto dell’umanità” prevede che per costruire la fraternità l’incrocio efficace, armonioso, di questi legni sia impegnativo e lento, fragile.
Per Kant dal nostro essere costitutivamente un legno storto non è possibile cavare nulla di buono ma è un’affermazione corretta dai fatti, non solo dalle aspirazioni e dalla letteratura.
Ognuno ha fatto esperienza diretta quantomeno di momenti di fraternità, anche prolungata, in famiglia, tra amici, al lavoro, in ambito sportivo. Fraternità significa parità, apertura, fiducia, capacità di andare oltre il visibile, oltre il nostro essere adam, terra perché siamo anche ruah, soffio, spirito, trascendenza. La fraternità è un potente aiuto a sostenere la paura della morte, un sentimento universale.
Non possiamo mescolare i corpi – trasfusioni e trapianti sono comunque transitori, destinati a svanire con la morte. Possiamo però sperimentare una condivisione spirituale, culturale, affettiva, di valori, interessi, obiettivi. Qualcosa che è nostro e che proprio perché condiviso riteniamo non sottoposto alla legge fisica della decadenza e speriamo che sopravviva al disfacimento del corpo, alla morte.
Motivazioni simili fanno desiderare una discendenza, insieme ad altre “sollecitazioni biologiche” che attualmente sono molto depotenziate dalla retribuzione pensionistica, l’assistenza sanitaria, la mal riposta ma diffusa credenza di fermare il calendario e vivere un “presente esteso” (Helga Novotny) che non prevede un suo esaurirsi.
In questo tempo, rari nantes in gurgite vasto (pochi si salvano nel mare in tempesta), un piccolo resto continua a coltivare la fratellanza. È il nucleo che la salverà, perché il rischio di crollo sotto la pressione degli eventi genera una fraternità più salda. Un piccolo resto che arma il vascello, la piccola arca che salva l’umanità del genere umano.
Questo accade ricorsivamente, forse abbiamo sempre bisogno di qualcuno che nel suo mostrarsi lontano dalla fraternità, dalla condivisione del munus, ne rammenta la necessità, per contrasto, così stimola i gesti costruttivi che possono generarla.
Segnalo che l’etimologia di custode per la maggior parte degli studiosi collega le parole latine custodia, custos alla radice sanscrita: “gudh”, che significherebbe salvaguardare, preservare, agendo in maniera da velare e nascondere.
Forse, la fraternità non può mostrarsi troppo, la sua efficacia di custodia si fonda sulla capacità di intervenire sui limiti di ognuno, sull’eccesso di… stortità del legno, in modi piani e sobri, con modestia.
Forse, nonostante tutto, la fraternità è ben viva e lotta qui con noi.
Meno male, perché la rassegnazione è un suicidio quotidiano (H. De Balzac)