Fra i molteplici significati che si possono attribuire alle città, ci insegna Italo Calvino, vi è quello di “luoghi di scambio”. Ma, spiega il grande scrittore introducendo “Le città invisibili”, “questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi”.
Un concetto che sembra calzare a pennello, in un’accezione singolare e purtroppo non positiva, analizzando quanto è accaduto a Brescia qualche sera fa (il giorno 13 dicembre), allorché parole orribili, desideri oscuri non più inconfessabili e ricordi atrocemente dolorosi si sono ritrovati fusi e confusi insieme in una offensiva esibizione di orgoglio neofascista.
Ingredienti semantici di un “dark pride”, che ferisce al cuore la città della strage sottolineiamo fascista del 28 maggio 1974 in piazza della Loggia, che causò 8 morti e oltre cento feriti. Così come, un mese prima (il 9 novembre) una analoga iniziativa dell’ultradestra, che vedeva la polizia caricare e disperdere non i loro promotori ma coloro che intendevano ad essi contrapporsi in nome dell’antifascismo, aveva insultato Bologna vittima dell’attentato ri-sottolineiamo fascista del 2 agosto 1980 (85 morti e più di duecento feriti).
Un cerino ha così riacceso nel fitto buio democratico del presente la memoria impolverata del decennio più buio della Prima Repubblica, facendo rivivere ai più anziani il clima inquietante che si respirava, da piazza Fontana alla stazione di Bologna, negli anni della strategia della tensione e della massima efficacia operativa dell’eversione di destra e di sinistra. Ordine Nuovo e Brigate rosse. Bombe e kalashnikov. Dopo mezzo secolo stiamo attraversando invece gli anni della strategia dell’estensione. Si va propagando, inquinando coscienze e istituzioni, un’onda nera che non trova argini in grado di contenerla, in Italia come nel resto d’Europa.
A Brescia, la sera di Santa Lucia, ha sfilato un corteo di circa cinquecento neofascisti confluiti da una miriade di movimenti diversi ma speculari: Rete dei Patrioti, CasaPound Italia, Veneto Fronte Skinheads, Comunità militante Brescia, Nazionalisti camuni, accodati alle due sigle organizzatrici, “Brescia ai bresciani” e “Brescia Identitaria”. I cronisti presenti e i casuali passanti li hanno visti marciare compatti, a testa alta (e probabilmente qualche braccio teso) contro “la società multirazziale, il degrado e l’insicurezza”, il consueto logoro ritornello che fa leva su motivazioni identitarie e securitarie. Il variegato serpentone di giovanotti – in abito scuro, ma non di gala – si muoveva all’unisono, inquadrato in ordinate file militari, rivendicando la purezza italiana e bresciana della città, inquinata dalle contaminazioni della vituperata società aperta. “Riprendiamoci Brescia”, “Difendi Brescia”, dichiaravano inequivocabilmente due striscioni annegati in un mare di tricolori, che poco avevano di patriottico e molto di nazionalismo becero.
Nel capoluogo emiliano, la contromanifestazione organizzata dai collettivi antifascisti con la partecipazione spontanea di tanti comuni cittadini indignati, aveva mostrato un rigetto anche fisico della provocazione neofascista portata “a pochi metri dalla stazione di Bologna che è ancora per tutto il Paese una ferita aperta, per cui le famiglie delle vittime della strage hanno dovuto lottare per 40 anni per sentenze che chiariscono la responsabilità dell’estrema destra”, ha ricordato Elly Schlein accorrendo a nome del Pd al presidio organizzato in mattinata da Anpi e Cgil davanti al sacrario dei partigiani, mentre Casa Pound, Rete dei patrioti e altre sigle della galassia nera marciavano per le vie del centro.
Nella città lombarda non c’è stata una analoga contro-manifestazione per le strade, ma la risposta si è levata comunque limpida e compatta da tutto l’arco delle forze democratiche.
Se il sindaco di centrosinistra Laura Castelletti ha sottolineato che “Brescia ha dimostrato di avere poco da spartire con queste persone. Lavoriamo da anni per una comunità inclusiva, che sappia accogliere e condividere nel rispetto delle regole. Non ci fermeremo, la città appartiene alle tante persone che la abitano e la vivono nel rispetto reciproco”, Alfredo Bazoli, senatore del Pd e figlio di una delle vittime del 28 maggio 1974, ha tuonato contro quella che “è stata una vera e propria provocazione per una città civile e democratica, ferita da una strage neofascista 50 anni fa”.
E ha poi aggiunto che è “intollerabile e preoccupante che questi gruppuscoli di estremisti rialzino la testa, sfidando a viso aperto le forze democratiche del Paese, forse approfittando di un clima che sentono meno ostile di un tempo. Mi auguro che tutte le forze politiche della città facciano cordone sanitario per isolare e rendere irrilevanti questi rigurgiti di un passato che ha segnato così pesantemente la città e il Paese”. Citiamo anche Manlio Milani, che nella strage perse la moglie e oggi presiede la Casa della Memoria a Brescia, per il quale ciò che si è visto la sera del 13 dicembre è “un altro sfregio neofascista alla nostra città che ha fatto dell’antifascismo, del rifiuto del razzismo, dell’accoglienza e della convivenza civile il suo modo di essere”. Anche lui, come il sindaco, ha voluto ricordare che “la nostra città è di tutti e sa vivere nel rispetto delle regole democratiche sancite dalla Costituzione antifascista. Mi auguro che anche oggi le istituzioni unitamente a tutte le forze politiche e sociali facciano sentire la loro voceinvitando i cittadini a isolare questi rigurgiti di un passato che ha colpito la nostra città e il paese. Non possiamo accettarlo”.
Parole importanti, rinfrancanti, accorate. Che rischiano, tuttavia, di apparire flebili e isolate apprensioni moralistiche in un Paese globalmente sordo all’argomento. Preoccupano di più – e lo si può comprendere – la tenuta dei bilanci famigliari, i redditi erosi dall’inflazione, la precarietà del lavoro, le liste di attesa negli ospedali. Le questioni ideali, i diritti?
Pruriti da anime belle, ci tocca constatare. Senza riflettere sul fatto che la democrazia in fondo, come il potere, logora chi non ce l’ha e rafforza, con la sua tolleranza, chi la combatte. Basta guardare alla Siria, uscita da un incubo di terrore e violenza ultradecennale. La libertà lì rappresenta oggi il bene più importante. Prezioso quanto il pane.
Proprio perché man cava, è mancata così a lungo. Nella malconcia e declinante ma ancora sostanzialmente “ricca” Italia, la libertà è un bene invece talmente abbondante e scontato che non mobilita abbastanza le masse. Ma ha permesso, per stanchezza distrazione o connivenza, la più ampia agibilità agli ammiratori di autocrati e dittatori.
Quindi, perché stupirsi se, dal teatrino ben congegnato di Atreju, la presidente del Consiglio si sia ben guardata dallo spendere una sola parola di “distinguo” (un “noi non c’entriamo niente”), se non di condanna esplicita, rispetto ai falangisti che hanno marciato a Brescia poche ore prima insultandone la storia? Come nulla ebbe da dire peraltro prima su Bologna? Ad Atreju si è visto altro. La solita grancassa vittimistica di chi governa da oltre due anni e tuona come se fosse perennemente all’opposizione. E la solita allergia alle critiche, alla libera informazione. In questo, si è distinto, con esemplare coerenza, il presidente del Senato, Ignazio La Russa, fra i padri fondatori di Fratelli d’Italia, quando ha fatto scacciare dalla sua scorta il giornalista di “Fanpage”, Saverio Tomasi, proprio nel momento in cui passeggiava allegramente assieme a un tizio con i tatuaggi di Mussolini impressi sul braccio, definendolo “uno dei nostri”. E quindi: perché mai questo partito, i suoi dirigenti, presidente del Consiglio in testa, dovrebbero mai condannare le sfilate identitarie e razziste nel cuore di città che hanno pagato un prezzo altissimo alla loro fede democratica? Saremo pure ingenui, ma la Costituzione si difende anche semplicemente ricordando che esiste.