Inizia da oggi, con la pubblicazione della prima puntata di un intenso reportage dalla Bielorussia, la collaborazione di Christian Eccher alla nostra testata. Un ingresso che saluto con particolare soddisfazione, conoscendo ormai Christian da diversi anni e avendone seguito nel tempo la straordinaria attività di reporter, scrittore e viaggiatore sia nei Balcani sia in paesi lontani e poco conosciuti dell’area euroasiatica, al confine fra Oriente e Occidente. Alcuni coinvolti, chi più e chi meno, nel contesto della sanguinosa guerra in atto fra Russia e Ucraina, che sta cambiando il corso della storia in Europa. Per farsi un’idea del lavoro coraggioso di Eccher – che insegna italiano all’Università di Novi Sad in Serbia e collabora anche con i media di opposizione al regime nazionalista di Belgrado – rimando alla mia recensione del suo ultimo libro, “Karhozat. Storie di muri e frontiere”, uscito il 27 agosto scorso su “ILDIARIOonline” e presentato a metà settembre alle librerie Lovat di Trieste e Villorba. Di sicuro, attraverso la sua competenza, esperienza e costante monitoraggio sul campo, ci potremo avvantaggiare di un’informazione libera, onesta e rigorosa.
Valerio Di Donato


La frontiera fra Bielorussia ed Unione Europea è blindata. Lungo tutto il confine, sia quello lituano sia quello polacco, c’è una rete metallica, simile a quella che divide Serbia e Ungheria. Ai lati del muro divisorio, da entrambe le parti, c’è una strada con i solchi profondi lasciati dalle jeep della polizia che pattugliano continuamente il confine. La Polonia ha chiuso tutti i punti di passaggio, tranne quello di Brest, mentre la Lituania ne ha lasciati aperti due. In estate si aspettano anche tre giorni prima di riuscire a passare il confine. Da qualche mese, i cittadini dell’UE possono visitare la Bielorussia senza visto di ingresso, ma alla frontiera di turisti ce ne sono ben pochi: non appena si entra in zona di transito, sia in Polonia sia in Lituania, ci sono dei cartelli a dir poco inquietanti: “Se andate in Bielorussia, potreste non tornare indietro!”, che scoraggiano chiunque a visitare il Paese del poeta Yanko Kupala. I controlli alla frontiera sono minuziosi, i poliziotti lituani trattano i bielorussi che escono o entrano quasi con disprezzo. Quelli bielorussi sono freddi e puntigliosi ma gentili. È notte, l’estate non è ancora finita ma fa già freddo: un nucleo di bassa pressione insiste sull’Europa orientale e porta venti forti che fanno abbassare la temperatura. Il punto di controllo frontaliero si trova immerso in fieri boschi di abeti, le cui cime si piegano paurosamente al vento. Rare stelle brillano tremolanti nel cielo solcato da cumuli che navigano nell’oscurità come grandi velieri silenziosi. Lidia fuma una sigaretta in attesa che tutti i passeggeri che viaggiano con lei sull’autobus e diretti a Grodno sbrighino le formalità doganali. Si stringe nella giacca, visibilmente infreddolita. “Ricordo i tempi in cui, proprio alla frontiera, ci si incontrava con i colleghi polacchi” – dice Lidija, che ha lavorato per tutta la vita in un’azienda manifatturiera di Grodno. “Una volta all’anno, d’estate, lungo la linea di frontiera veniva disposto un lungo tavolo: i polacchi si sedevano in Polonia, noi in Bielorussia e si mangiava. Poi si ballava, proprio sulla linea di confine, ci si scambiavano idee e ci si innamorava anche – dice ridendo Lidia – adesso invece siamo nemici, fra di noi non c’è più un tavolo imbandito di carne arrosto e frutta fresca, ma un muro di metallo”. Lidia ride amaramente e non riesce a trattenere una bestemmia, prima in russo e poi in polacco

            I polacchi hanno posto 3 condizioni per riaprire le frontiere: la fine degli attacchi ibridi al confine con i migranti, la liberazione del giornalista e attivista Andrei Pochobut e di tutti i prigionieri politici di nazionalità polacca e, infine, i chiarimenti sul soldato polacco ucciso alla frontiera nel gennaio del 2022. Finora la Bielorussia non ha voluto accontentare le autorità polacche ma il presidente Aleksandr Lukashenko non vuole esacerbare i rapporti con i vicini: un po’ perché a livello economico la Bielorussia dipende ancora dall’UE e un po’ perché la chiusura totale delle frontiere causerebbe problemi alla Cina, le cui merci indirizzate all’Ue passano anche attraverso la Bielorussia.

            Un caffè a Grodno

            Grodno è una città al confine con la Polonia e i suoi abitanti soffrono molto per la chiusura delle frontiere. È mattina presto, le strade cominciano ad animarsi. “Grodno è una città che ha sempre avuto rapporti strettissimi con la Polonia e con la Lituania”, dice accorata Julija, una signora di mezza età appena tornata da una visita ad alcuni parenti che abitano a Bialystok, in Polonia. Prendiamo un tè in un bar del centro, vicino alla cattedrale dei Cappuccini, che biancheggia solitaria nella piazza ancora semideserta.

Grodno

“Noi cittadini soffriamo tantissimo perché non possiamo andare ad Augustow, in Polonia, o a Druskininkai, in Lituania, dove molti di noi avevano le proprie “dace”. Io ho una “dacia” così vicina alla frontiera polacca che ogni tanto, prima che costruissero il muro, sconfinavo, alla ricerca di funghi! Adesso – continua Julija – per andare in Polonia, a 50 km da qui, impiego dalle 24 alle 72 ore.” Faccio notare a Julija che ho l’impressione che a Grodno la gente sorrida di meno rispetto agli anni passati, come se si fosse rassegnata dopo il fallimento delle proteste del 2020. “Non sono d’accordo – dice Julija in maniera ferma e decisa, mentre pulisce con il tovagliolo il bordo della tazzina da cui è traboccato un po’ di caffè a causa di una manovra maldestra del cameriere – La gente si è semplicemente tranquillizzata. Sorride esattamente come prima. Quello che è successo nel 2020 è successo, si va avanti, ci saranno altre occasioni per cambiare le cose. Nel 2025, a fine gennaio, ci saranno le elezioni presidenziali, si sa già chi vincerà, ovviamente, ma non sono esclusi colpi di scena, nuove manifestazioni… Il potere non è tranquillo, sa che si regge sulla paura”. A un certo punto arriva Olga, una professoressa delle scuole superiori. Oggi non c’è scuola e ha deciso di raggiungerci al caffè. Alta, elegante, Olga ha deciso di rimanere in Bielorussia, nonostante la sua famiglia abbia subito persecuzioni subito dopo le proteste del 2020. “Io qui sono a casa e non vedo perché me ne debba andare. I miei sono quasi tutti in Polonia e si sta creando uno iato enorme fra coloro che se ne sono andati e noi che siamo rimasti. È un po’ quello che sta accadendo anche in Ucraina, chi è andato via sembra non capire più i parenti e gli amici che sono rimasti e sono sotto le bombe… Quelli che hanno lasciato la Bielorussia dopo il 2020 ci accusano spesso di codardia: perché non protestate, ci chiedono? Perché non si può, non ci sono le condizioni e, in qualche modo, dobbiamo anche convivere con chi è al potere. Non siamo codardi, anzi, siamo molto più coraggiosi di quelli che se ne sono andati. È facile parlare quando sei lontano. Noi rimasti esigiamo rispetto!”. Olga racconta che i bielorussi fuoriusciti, in ogni caso, non hanno vita facile né in Polonia né in Lituania: “L’Europa ha dimenticato la Bielorussia. Sussidi, lavoro, aiuti materiali: in Polonia danno tutto agli ucraini, noi bielorussi non esistiamo più. Ci hanno dimenticati, o forse fa comodo non pensare a noi, in questo momento siamo politicamente inutili…”, conclude Olga. Parliamo ancora, mentre la piazza a poco a poco si anima di studenti che vanno verso l’Università e di gente che corre al lavoro. Accanto alla cattedrale barocca c’è un muro bianco, dietro al quale si trova il carcere: uno dei pochi casi al mondo in cui la prigione è situata proprio nel centro della città. I malati degli ospedali e i criminali, ha osservato il filosofo Foucault, vengono sempre esiliati alla periferia dei centri urbani. A Grodno no. Forse è meglio così: dietro a quel muro, nelle celle, ci sono ancora molte persone arrestate nel 2020 a seguito delle manifestazioni antigovernative. Alcuni sono stati condannati, altri sono ancora in attesa della sentenza. Si parla di condizioni di detenzione estreme, fra zecche e tubercolosi, ma non c’è possibilità di controllare se questa versione dei fatti sia vera o meno. In ogni caso, con Olga e Julija discutiamo anche della città e della sua storia, della gente che la abita e che appartiene a diverse nazionalità. Grodno ricorda molto Novi Sad e la Vojvodina.

continua
prossimo articolo il 23/12/2024 dal titolo:
Pinsk: Le due facce della medaglia
Christian Eccher
Christian Eccher è nato a Basilea nel 1977. Si è laureato in Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, dove ha anche conseguito il dottorato di ricerca con una tesi sulla letteratura degli italiani dell’Istria e di Fiume, dal 1945 a oggi. È professore di Lingua e cultura italiana all’Università di Novi Sad, in Serbia, e nel tempo libero si dedica al giornalismo. Si occupa principalmente di geopoetica e i suoi reportage sono raccolti nei libri Vento di Terra: Miniature geopoetiche, Esimdé e Kàrhozat. In Serbia è collaboratore assiduo della rivista di opposizione Danas

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