Un dato determina il nostro pensare.
E cioè le caratteristiche oggi del voto in Italia e non solo.
È chiaramente un “voto di opinione”.
Diverso in maniera esplicita e drammatica dal voto del Novecento.
Nel secolo scorso infatti si mischiavano insieme i desideri e i frutti del pensiero con le necessità quotidiane della vita.
Si votava cioè per scelta della mente e per emanciparsi da condizioni materiali e civili che non si ritenevano buone.
Diveniva il voto spesso un gesto “collettivo” perché si capiva e si sentiva dentro di noi che le condizioni della vita (salario, lavoro, sanità, diritti) univano e rendevano “comunitaria” la condizione di necessità e la conseguente protesta civile, sindacale ed elettorale.
Oggi chi ancora (e sono tanti) si trova a vivere una condizione di rabbia sociale e di protesta per le condizioni in cui versa e per la lontananza di qualsiasi ascensore sociale fa una cosa chiara: non va a votare.
Estremo modo per dire: non mi rappresentate, non vi credo, non vi sopporto.
Rimane in buona parte quindi il voto un “affare” di pensiero, una espressione di desideri culturali, una manifestazione di convinzioni civili.
Per tutti?
No.
Principalmente per la sinistra.
Perché la “destra” con esemplare semplicità si pone la quotidiana e utile impresa di difendere, di amministrare, di governare e di incentivare il proprio patrimonio di consensi.
E lo fa con intelligenza e spregiudicatezza.
Capisce cioè che la concretezza del proprio operare deve rispondere a due domande.
La prima è evidente: premiare i sentimenti maggioritari nell’opinione pubblica.
Quindi ciò rende necessario avere attenzione ai fenomeni di convinzione di massa e al sistema generale della comunicazione.
La destra sa bene che le sue radici non sono maggioritarie nel popolo.
Non c’è il dilagare del vecchio fascismo.
Ma sa che il fascismo oggi è un peccato veniale sopportabile e perfino ammissibile perché non importante rispetto ad altre tematiche classiche e tipiche di un popolo spesso spaventato e turbato dalla realtà.
E allora il pensiero di destra che filtra sempre di più viene perdonato e accolto se garantisce il nostro vivere secondo gli stereotipi conservatori che nella quotidianità ci pervadono.
La sinistra invece ama condurre le idee e non replicarle, ama esporre e non essere rappresentante.
Vuole proporre, indicare, far riflettere e pensare.
E quindi ama dividersi.
È naturale conseguenza.
La sinistra esprime valori non li raccoglie.
E nel Novecento poteva unire tutto ciò ai “bisogni”, alle volontà di emancipazione sociale che oggi invece cadono, come detto, nel non voto.
Ecco perché perde.
E allora due sono le chiavi di svolta.
Da una parte, certo, riprendere la capacità di rappresentazione collettiva dei bisogni e portare il voto a sinistra non solo come scelta ma come necessità.
Sarà una strada necessaria ma lunga e non facile.
E dall’altra guardare al voto com’è.
Un voto di opinione e di riferimento dei pensieri di massa.
Mi si permetta quindi di porre un problema proprio in riferimento alla formazione delle opinioni.
Oggi siamo travolti dalle vicende internazionali che divengono sempre di più quotidiano interesse per ogni cittadino.
Lo divengono per tre ragioni.
Perché sollecitano il pensiero, le reazioni emotive, l’indignazione e quindi sono tipiche di un mondo che esprime le proprie convinzioni.
Perché generano preoccupazioni proprie in ciascuno di noi, emozioni legate alla vicinanza dei conflitti, alle possibilità di coinvolgimenti diretti e drammatici.
Infine perché vi sono conseguenze “terrene” visibili e “pesabili” con l’aumento di costi (vedi gas e energia elettrica) e di tasse.
Quindi le opinioni generali hanno tre ragioni per esprimersi e non solo una, quella “ideale”.
Allora è necessario avere la capacità di cogliere le contraddizioni che si manifestano tenendo conto della loro complessità e non valutandole solo per la loro idealità.
E lo dimostra la scarsità di appeal che genera il Papa quasi isolato nel suo chiedere pace.
La sinistra deve sapere che sempre di più i silenzi sono solo terra bruciata e il vecchio trucco del “rimando della posizione” – quando vi è qualche dubbio – non funziona.
Bisogna necessariamente stare “sul pezzo”.
Perché oggi le vicende internazionali non sono più “fuori da noi”.
Sono “dentro di noi”.
Trump è dietro l’angolo, Putin a poche centinaia di chilometri, la Cina in ogni negozio, l’Europa in ogni finanziamento pubblico.
Con prudenza, intelligenza e capacità di ascolto ma non si può tacere.
Bene, io penso quindi che sulle questioni internazionali il metodo antico dell’attesa di certezze abbia esaurito il proprio essere.
Occorre cominciare con coraggio a ragionare.
E il problema non è solo quello di condannare questo o quello.
Il problema è la trasformazione del mondo e la crisi dei valori occidentali.
Perché se non ragioniamo saremo trascinati dalla realtà e non avremo alcuna capacità di influenzarla.
Questa riflessione è quindi solo una premessa.
Ma la credo necessaria.
Si ringrazia la redazione della testata giornalistica “ytali.com” per averci concesso di riproporre l’articolo su “ILDIARIOonline”