I numeri offerti da Dunbar e dagli altri sembrano suggerire l’impossibilità di estendere la fraternità come valore realizzato sul campo oltre un limite piuttosto ristretto, quanto corrisponde a una tribù. Pensandoci, è già un’impresa faticosa, avere un legame autentico con millecinquecento persone, anche tenere rapporti regolari con centocinquanta senza troppe “scintille” è una scommessa.
Scorrendo una sommaria bibliografia sulla fraternità, sui fratelli, si scopre una generosa percentuale di titoli che finiscono con il punto interrogativo. Un bellissimo esempio (e un libro meritevole) lo offre Salvatore Capodieci con “Fratelli & Sorelle. Hänsel e Gretel o Caino e Abele?” a ricordarci con grande competenza ed esperienza che anche nella fratellanza biologica i problemi non mancano, non sono mai mancati né mai mancheranno. È il già rammentato legno storto kantiano che mette il bastone tra le ruote.
Per fortuna la cultura soccorre la natura: ho raccolto sufficienti narrazioni di sorelle in lutto per la morte in seno alla fratellanza biologica che hanno trovato grande conforto in amiche/amici stretti, molto più che negli stessi genitori, stremati dalla morte del figlio. I racconti sono toccanti ma soprattutto istruttivi: quando serve, molti umani si prestano per una fraternità autentica, che non necessita di un legame biologico per avere valore, per donare o restituire senso alla vita l’uno dell’altro.
Perché certamente anche gli amici che accompagnano nel tempo del lutto nel loro prestarsi sviluppano delle competenze affettive, relazionali, ampliano il proprio orizzonte di senso della vita.
Superata l’emergenza, si torna alla quotidianità, gli amici sembrano ritirarsi, potrebbe sembrare che tutto sia come era prima del lutto. Invece, le narrazioni dimostrano che anche a distanza di un congruo numero di anni le persone hanno acquisito il cambiamento, indiscutibilmente benefico, efficace nell’orientare le scelte di vita, il legame interpersonale è pronto a riattivarsi in caso di bisogno.
Tra i testi di Edgar Morin, ai miei occhi spicca “Fraternità, perché?”, con un seguito dal titolo più incoraggiante “Fratellanza d’anima”, con P. Rabhi.
Nel primo illustra e motiva perché della fraternità abbiamo bisogno, con tutte le evidenze storiche di un percorso sempre accidentato ma attingibile quando le persone decidono di mettersi in gioco. Nel secondo incoraggia a riconoscere che le differenze di età, di storia, di provenienza da diverse nazioni non rappresentano un ostacolo, perché condividiamo tutti una unica e inscindibile base comune, comunque la si voglia appellare. Perché la fratellanza l’ha ricordato recentemente Alberto Pellai: “non è il tempo a trasformarci ma come lo abitiamo e soprattutto con chi lo viviamo (…) per riuscirci, è fondamentale non rimanere soli e trovarsi al fianco, nel proprio cammino, persone che hanno il potere di renderci migliori”.
La proposta mi ricorda i polinesiani fratelli di canoa. Alla prossima puntata.