Inizia oggi, con la pubblicazione della prima di tre puntate, un intenso, poetico e crudo reportage
dell'ultimo viaggio in Ucraina di Christian Eccher collaboratore della nostra testata.

Da Uzhgorod la tradotta diretta all’inferno

Il treno per Odessa parte puntuale da Uzhgorod, il capoluogo della regione della Transcarpazia, al confine con la Slovacchia e l’Ungheria. Le ferrovie ucraine garantiscono un servizio di collegamenti interni puntualissimo ed efficace: la rete ferroviaria ucraina può essere paragonata al sistema linfatico dell’essere umano, senza il quale la vita non sarebbe possibile.

            Il vagone denominato “platzkart” è composto esclusivamente da posti letto, è completamente aperto e non esistono le porte degli scompartimenti. Ci sono cuccette anche in quello che normalmente è il corridoio. Il treno si riempie a Mukachevo, una città che si trova ancora nella pianura pannonica ma già ai piedi dei Carpazi e che ospita un centro di preparazione militare per le nuove reclute dell’esercito ucraino. I passeggeri che salgono qui sono principalmente soldati. Un gruppo in particolare si distingue rispetto agli altri. Sono in 3 e hanno le divise della della polizia militare. Appena preso possesso delle cuccette, estraggono dai loro zaini buste di plastica colme di salame, formaggio, sardine in scatola e una bottiglia di vodka, in teoria vietata sui mezzi pubblici. Quando il convoglio, con uno strattone secco e deciso, si muove, i ragazzi cominciano a mangiare e a scherazare ad alta voce. Gli altri passeggeri non sembrano essere disturbati dall’apparente allegria dei nuovi arrivati. Alla domanda su dove siano diretti, uno di loro risponde: “Non lo sappiamo con esattezza. Probabilmente a Pokrovsk, è lì che adesso c’è bisogno di uomini a difesa della città. In ogni caso, domani all’arrivo a Odessa ci aspetta un minibus per Zaporizha, poi si va oltre, dove, lo sapremo all’ultimo momento”.   

          Il soldato ha all’incirca 30 anni ed è il più aperto della compagnia: è completamente calvo, ha un viso tondo e lo sguardo da bambino disubbidiente, gli occhi sono leggermente offuscati dall’alcol della vodka, che comincia a fare effetto, e dalla stanchezza che lentamente prende il sopravvento. Si chiama Volodimir e viene da un paese non lontano da Kiev. Con lui ci sono Valery, che ha poco più di 20 anni, un fisico possente e una barba lunga e incolta. Anche lui è calvo e sorride a chiunque passi davanti al tavolino imbandito, soprattutto alla cuccettista (una per ogni vagone) che lo sgrida quando vede che versa la vodka nel bicchiere di plastica. Il terzo del gruppo, Aleksej, è il più anziano e anche il più taciturno: ha una cinquantina d’anni e, non appena finito di mangiare, si sdraia nella propria cuccetta con il volto al muro e di lui, fino al giorno dopo, sarà visibile solo la schiena. Ai soldati si unisce Aleksandr, un giovane docente di enologia alla facoltà di chimica di Odessa, che è stato a Uzhgorod per aiutare un amico a produrre un nuovo tipo di grappa biologica da lanciare sul mercato internazionale. Regala una bottiglia del prodotto appena sperimentato ai militari, che però non sembrano apprezzare: la bevanda è per loro troppo delicata e, soprattutto, poco alcolica. Volodimir, il più loquace, racconta di essersi arruolato volontariamente e di sapere già quale sia il suo destino: “Non è come vi fan vedere in televisione – dice con fare accorato a Aleksandr e a me – i soldati ucraini al fronte vengono mandati verso il nemico senza una tattica ben precisa. Siamo carne da macello. Volete sapere come funziona al fronte? Ve lo dico subito: ci portano lì con le jeep e rimaniamo in posizione, in trincea, anche per un mese intero, finché non arriva il cambio”.

         Volodimir addenta un pezzo di cipolla e subito dopo, con una forchetta di plastica, porta alla bocca una sardina facendo attenzione che l’olio di semi non gli cada sui pantaloni. “In quel mese può succedere di tutto: ti possono dare l’ordine di andare in “sturm”, vale a dire all’attacco, e ciò vuol dire che vai verso la morte sicura, con i russi che ti sparano addosso dalle loro trincee. Oppure ti possono mettere dietro a un cannone e stai lì per ore a cercare di colpire le postazioni nemiche. Il boato degli spari ti rimane nelle orecchie per settimane. In questi casi, a far paura sono i droni: i russi ci attaccano con quelli, se ti notano ti arriva addosso un drone kamikaze pieno di esplosivo e ti riduce a brandelli”. Un altro problema non secondario è la cronica mancanza di munizioni: “Se i russi sparano 20 colpi, noi rispondiamo con 3. Abbiamo armi moderne, che ci hanno spedito gli alleati, ma cosa ce ne facciamo se scarseggiano i proiettili? L’Europa e l’America a questo non hanno pensato, o non hanno voluto pensare”. Volodimir è preoccupato per la sua famiglia: ha moglie e due bambini piccoli. “Io credo che non tornerò mai più a casa. In ogni caso, se anche dovessi tornare, ciò che mi preoccupa è come tornerò. Violento, alcolizzato, scioccato, condannato all’insonnia perenne?”.

           Aleksandr gli chiede se non sia meglio rinunciare alla guerra: con due figli piccoli, la legge ucraina gli permetterebbe di rimanere a casa. Volodomir prontamente e decisamente risponde: “Ascolta, se la mettiamo così, quali sarebbero le conseguenze? Che io non vado perché ho due bambini, tu non vai perché ti vuoi sposare, quell’altro non va – dice indicando un passeggero seduto lontano da noi – perché non vuole dare un dolore alla mamma… Se ragioniamo a questa maniera, fra 3 giorni i russi arrivano a Odessa. Se rimango a casa, prima o poi un missile mi ammazza o l’esercito russo arriva a Kiev, mi arresta, mi violentano la moglie e rapiscono i miei figli, come succede già da tempo in Donbass. Per cui vado io lì a sparargli addosso prima che sia troppo tardi. Ve lo dico chiaramente: non lo faccio per il governo o per il presidente, di cui non mi importa assolutamente nulla, io difendo casa mia e la mia gente”.  Aleksandr annuisce e abbassa lo sguardo. Anche lui ha dei figli piccoli e in guerra ha deciso di non andare, almeno per ora. Non si sente in colpa e non ce n’è ragione: in situazioni simili, hanno tutti ragione e ogni decisione va rispettata. Dipende dal punto di vista che si predilige nel guardare la realtà: Aleksandr capisce la scelta di Volodimir e Volodimir quella di Aleksandr.

            La notte cala e si spengono le luci nel vagone. Verso le 3 di notte il convoglio arriva a Ternopil’ e una ragazza magra, con un viso dai tratti delicati e dolci, sale sul treno. I soldati si svegliano e, non appena notata la giovane, scendono dalle loro cuccette e le luci dei loro cellulari trafiggono il buio per permettere alla nuova passeggera di preparare il letto. Fino all’alba, a parte il rumore delle ruote che sobbalzano sui binari e il lontano russare di qualche viaggiatore, non si sente più nulla. All’alba, la ragazza è già sveglia, si pettina, seduta sul proprio letto. Le braccia si muovono dall’alto verso il basso ritmicamente, una mano tiene salda la spazzola, l’altra l’accompagna e accarezza i capelli quasi a verificare che siano lisci. I movimenti sono lenti e cadenzati; alla luce dell’alba che entra dal finestrino, ricordano le movenze di danza della coreografa tedesca Pina Bausch, il cui ballo era fondato principalmente sugli arti superiori. La ragazza si chiama Maria e va Odessa a trascorrere il capodanno con gli amici: ha 24 anni, una laurea in Scienze della comunicazione e una fortissima passione per la cultura giapponese.

         “Dove sono io, dalle parte di Ternopil’, la situazione è tranquilla. Ho dovuto litigare con i miei genitori per convincerli a lasciarmi partire. Odessa è spesso sotto attacco, ma io ho insistito, è dall’inizio della guerra che non viaggio…”, dice Maria. Parliamo per ore, i soldati sono visibilmente dispiaciuti che Maria preferisca conversare con me piuttosto che con loro; lo straniero è sempre più interessante, per il solo fatto di essere straniero. All’arrivo, Valery, regala il libro che ha appena finito di leggere a Maria: nonostante il fisico enorme e la barba lunga, che gli danno un’autorità indiscussa, non riesce a nascondere timidezza e imbarazzo e il sorriso incerto tradisce fragilità e forse anche insicurezza. Gli altri soldati lo prendono in giro, gli chiedono sommessamente “E Kristina? Se lo viene a sapere?”. Ridono silenziosamente e Valery si schermisce, ma sorride anche lui.

            Il treno arriva a Odessa.

Odessa

Ci salutiamo, rapidamente, Aleksandr fa un selfie collettivo che abbraccia tutti noi con il cellulare e lentamente il vagone si svuota. Maria scompare fra la folla ed esce dalla stazione. I soldati si raggruppano sulla pensilina al primo binario insieme agli altri commilitoni. Visti da qui, sembrano forti e invincibili, con le loro divise marroni, gli zaini sulle spalle e gli sguardi seri. Penso che dopodomani saranno probabilmente già al fronte. Mi allontano senza girarmi: mi sento in colpa per aver parlato a lungo con Maria quando avrebbero voluto farlo loro e per essermi accattivato le simpatie della ragazza in quella gara inconscia, tipicamente maschile, a piacer di più alle ragazze; mi sento in colpa per lasciarli adesso al loro destino, in guerra bisognerebbe andare tutti insieme. Dopodomani, loro saranno al fronte, presto forse non ci saranno più. Io, se un missile o un drone non mi colpiranno, fra dieci giorni sarò di nuovo qui, e tornerò a casa, attraverso l’Ungheria, attraverso la steppa di Hortobágy che amo tanto, e che in questo periodo al mattino è coperta di brina bianca, che scricchiola quando le lepri saltano fuori dai cespugli e corrono all’impazzata perché il treno in corsa le impaurisce.


il reportage dall'Ucraina di Christian Eccher continua con la pubblicazione
del secondo articolo il 05/02/2025 dal titolo: A Odessa, fra i sommersi e (per ora) salvati nel buio della periferia
e del terzo articolo il 07/02/2025 dal titolo: La surreale normalità di Mykolaiv fra missili e droni
Christian Eccher
Christian Eccher è nato a Basilea nel 1977. Si è laureato in Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, dove ha anche conseguito il dottorato di ricerca con una tesi sulla letteratura degli italiani dell’Istria e di Fiume, dal 1945 a oggi. È professore di Lingua e cultura italiana all’Università di Novi Sad, in Serbia, e nel tempo libero si dedica al giornalismo. Si occupa principalmente di geopoetica e i suoi reportage sono raccolti nei libri Vento di Terra: Miniature geopoetiche, Esimdé e Kàrhozat. In Serbia è collaboratore assiduo della rivista di opposizione Danas

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