Se è vero, come già ammoniva Aristotele, che “disfare il passato” è impossibile persino a Dio, agli umani è però consentito trattarlo con una certa duttilità. Lo possono, a seconda dei casi, glorificare, esecrare, manipolare, enfatizzare, sminuire. Tirarlo, in sostanza, da una parte o dall’altra traendone ciò che conviene e gettando quanto risulta sgradito. Vi sono anche casi, nella nostra vita terrena fatta di interessi e obiettivi non sempre convergenti, in cui si tende semplicemente a occultarlo o negarlo, il passato. E allora la faccenda si complica. Soprattutto se entrano in gioco la memoria pubblica di una nazione e la storia travagliata di un popolo. Come è accaduto all’Italia del secondo dopoguerra, con le terre perdute al confine orientale, quando, in nome di una frettolosa riconciliazione nazionale e dei nuovi equilibri imposti dalla guerra fredda, si è preferito nascondere la polvere sotto il tappeto. Parola d’ordine: dimenticare. Dimenticare qualche migliaio di giustiziati dai comunisti jugoslavi nelle foibe e ignorare l’esodo della quasi totalità dei trecentomila italiani da Istria, Fiume e Dalmazia. Dimenticare, al tempo stesso, i crimini di guerra dei fascisti in Africa e nei Balcani, rifiutando di estradare i loro responsabili. Rinunciare, di conseguenza, a chiedere la giusta punizione anche per i crimini di (dopo) guerra titini. Più facile, indubbiamente, congelare le malefatte di ciascuno (italiani e slavi) in un reciproco, implicito patto di “non aggressione” politica e diplomatica, lasciando al tempo di diluire e magari dissolvere i problemi. Si si può ben capire, allora, la fatica di Sisifo che attende il giornalista e scrittore Guido Lednaz, quando decide di mettersi alla ricerca della verità sul misterioso assassinio di un giudice romano suo amico, che aveva di fatto assolto un famigerato ex agente dell’Ozna (la temuta polizia politica di Tito) dall’accusa di genocidio, pluriomicidio aggravato e sevizie ai danni di centinaia di italiani in Istria e a Fiume, dal maggio 1945 al febbraio 1947. Motivazione addotta, il “difetto di giurisdizione” dell’Italia, che in quel periodo avrebbe perso la sovranità nazionale sulle terre d’oltreadriatico, in seguito all’avvenuta occupazione da parte dell’esercito popolare di liberazione della Jugoslavia. L’eliminazione del giudice è stata rivendicata da una sconosciuta formazione di estrema destra, “Falange nera”, con un comunicato inviato a un quotidiano della Capitale, riportante testualmente: “Oggi il compagno Luigi La Spina ha chiuso la sua esistenza di complice degli infoibatori titini. Onore ai martiri delle foibe”.
Parte da qui – e con un riferimento evidente all’inchiesta per i crimini delle foibe avviata alla metà degli anni 90 dal pm di Roma Giuseppe Pititto contro alcuni ex partigiani jugoslavi e poi bloccata dalla Cassazione – la lunga, appassionata e rischiosa indagine condotta da Guido Lednaz, il protagonista del romanzo storico “Eredità colpevole” di Diego Zandel, da poco in libreria per i tipi di Voland (240 pagg., 19, 00 euro). A leggere bene quello che traspare tra le righe, Zandel sembra voler affidare al suo alter ego letterario Lednaz (leggete il nome al contrario e capirete), una missione culturale non meno facile della soluzione del “caso La Spina”: de-politicizzare e de-ideologizzare al massimo il “Giorno del ricordo” che il 10 febbraio di ogni anno si celebra per precisa disposizione di legge. Un’operazione coraggiosa quanto ardita, ma non impossibile. Almeno, quando la parola passa alla letteratura. Zandel, come Lednaz, è un profugo e figlio di profughi fiumani, e – particolare tutt’altro che secondario – suo padre era un ex partigiano titino, ma non comunista e non pro-Jugoslavia, che disertò, arrivando a Trieste il 1 maggio 1945, quando capì il chiaro disegno annessionistico e anti-italiano dei partigiani sloveni e croati. E’ nato in un campo per rifugiati nelle Marche e cresciuto nel villaggio giuliano-dalmata di Roma, nel solco dei valori liberali, democratici e socialisti, che sempre lo hanno guidato, anche nell’affrontare la dolorosa epopea vissuta dalla sua gente esule.
A Bruno Lednaz, fa dire infatti che l’esecuzione del giudice La Spina “tornava a favorire l’equazione che più detestavo e più avevo combattuto: cioè, appunto, che foibe ed esodo non fossero una pagina di storia nazionale, ma di una parte sola, ovvero l’estrema destra”. E, a un ex estremista nero ricercato per l’omicidio su cui indaga e da lui abilmente rintracciato nel convento in cui s’era fatto frate, il giornalista-detective chiarisce di essere “stanco del sangue che si continua a versare nel nome di ingiustizie e crimini commessi contro la mia gente ormai oltre settant’anni fa. Ultimo, quello di un giudice che con queste ingiustizie e crimini non ha mai avuto niente a che fare. Non faremo un mondo migliore, così”.
Quanto pesa ancora quel passato. Quanto grava sui ricordi di chi non può dimenticare il carico di violenza che ha distrutto tante vite innocenti, diviso migliaia di famiglie prima serene, cristallizzato i rancori per i torti subiti, facendoli rimbalzare fino all’oggi. Sulla trama, convincente e avvincente e dal ritmo incalzante del thriller, non serve scendere troppo nei dettagli. Diego Zandel ha tessuto con accuratezza la tela fitta del racconto, non lasciando nulla al caso. Il rigore metodologico e linguistico si associa a uno stile agile, venato spesso di ironia, al ben dosato ricorso al dialogo come strumento esplicativo e a una grande capacità di decodificare in linguaggio accessibile temi e concetti (storici, geopolitici e ideologici) di per sé piuttosto complessi. Basti dire che Il quadro delle indagini svolte da Lednaz si sposta presto a Trieste, la città-simbolo dell’esodo giuliano-dalmata e del rapporto storicamente problematico con il confinante mondo slavo. Entrano in gioco nuovi personaggi: il vecchio ex infiltrato fascista al servizio di Gladio dimenticato e arrabbiato; la moglie di un internato a Goli Otok (in quanto “nemico del popolo”) fuggita nottetempo verso l’Italia con il figlioletto per non cadere nelle mani degli sgherri del regime comunista; l’infermiera misericordiosa che salva da un futuro oscuro un bambino destinato all’orfanotrofio; l’archivista antitecnologico ma cocciuto quanto basta per riuscire a trovare il famoso ago nel pagliaio; e perfino un misterioso e importante uomo politico di cui non si scoprirà l’identità e il ruolo che verso la fine. Non manca, ad alleggerire il quadro oggettivamente cupo dei fatti e misfatti narrati, l’affascinante sottufficiale dei carabinieri che collabora con Lednaz per risolvere il “caso La Spina” e fermare la catena di omicidi apparentemente inspiegabili che via via s’allunga.
Con l’avvicinarsi progressivo alla soluzione del giallo, il lettore intuisce che non di un’unica “eredità” e non di un unico “colpevole” il romanzo di Diego Zandel si occupa. Piano personale (le storie private) e piano pubblico (la grande storia con le sue domande irrisolte) si intrecciano in un incastro perfetto, consentendo all’autore di scavalcare il muro delle ideologie e delle faziosità politiche contrapposte, dei dogmi e dei pregiudizi coltivati a destra come a sinistra, in nome non solo della verità, ma dell’onestà intellettuale. Con un merito in più, va sottolineato: la circostanza di provenire da una delle parti in causa. Dal mondo dei vinti, di quelli che rappresentavano il volto di un’Italia umiliata e dimenticata. Condannata a pagare per tutti il prezzo della sconfitta in una guerra scatenata – va sempre ricordato – dal nazifascismo.