Sono passati 100 anni dalla nascita di Lorenzo Carlo Domenico Milani e non esiste più il mondo, sociale e culturale, che aveva posto domande a un prete (intellettuale di origine borghese ma anche visionario, provocatorio, determinato e forse narcisista) e alle quali egli aveva cercato risposte.
Rimangono, semmai, molti interrogativi sui temi che don Milani ha calamitato con il suo agire a Barbiana e con la pubblicazione, nel 1967, di “Lettere a una professoressa”: che cos’è poi la scuola, l’istruire, il ruolo dell’insegnante; come si seleziona: bocciare molto, promuovere tutti; come si forma il carisma di un docente nei macrosistemi istituzionali e come si gestiscono gli adolescenti.
Sono questioni riemergenti, delle quali si discute mentre la società muta e con essa il suo materiale umano, siano gli studenti, le famiglie, gli insegnanti stessi.
C’è un aspetto, però, sul quale si può riflettere: nel mondo di don Milani e anche nel nostro, l’io e il noi contrastano, cioè l’interesse personale e quello collettivo, anche se provano a coesistere (in fin dei conti questa è la democrazia). Don Milani si schiera per rafforzare il noi: la sua scuola è l’educazione alla comunità, alla collaborazione, oggi diremmo alla rete di relazioni inclusive.
In un processo pluridecennale, l’intera società è entrata in un ciclo in cui prevale l’io contro il noi. Lo ha fatto intensificando il tempo lavorativo, velocizzando ogni aspetto dell’esistere, togliendo cura alle relazioni, offrendo come socializzazione una Rete artificiale di grandi solitudini. Ne sta soffrendo la struttura familiare, le relazioni personali, l’educazione dei giovani. La scuola.
Quando ho iniziato la mia professione di insegnante, in un istituto di Mestre, ho trovato corsi sperimentali dove la didattica, la pedagogia, i sistemi valutativi, le relazioni tra le varie componenti scolastiche, erano improntati allo sforzo di fare della scuola un luogo di crescita, di allenamento alla vita, di compenetrazione tra generazioni (le sperimentazioni sono poi state assorbite dal Ministero e l’esperienza è sfumata).
Gli studenti si firmavano le giustificazioni e non avevamo moria di assenze. I consigli di classe erano partecipatissimi. I genitori non erano in antagonismo con i docenti.
C’è stato un senso del noi, quello che stava a cuore a don Milani e a tutti gli educatori non solo per professione, ma per convinzione.
Don Milani piaceva a Pasolini. Non piace a quegli intellettuali che imputano al “donmilanismo” di aver contribuito a una scuola che non insegna più nozioni. Come se la ruggine nel sistema istruzione fosse dovuta a una frazione di nozioni in meno e non il riflesso di quella lunga crisi sociale di cui la scuola è specchio e struttura sempre in ritardo, se non vi si investe.
Oggi gli attriti tra genitori e istituzioni scolastiche sono frequenti, la difesa a oltranza dei propri figli dilagante, il disagio adolescenziale serpeggia in ogni classe e istituto.
Sono causati dal “donmilanismo”?
Oppure la scuola sta facendo i conti con la prevalenza dell’io, come l’intera società del resto: conflitto, non collaborazione.
Una scuola che si arrenda al trionfo dell’io può avere come orizzonte valoriale solo una meritocrazia concorrenziale, educando i giovani a formarsi e crescere non perché sono obiettivi personali e sociali (io e noi) ma perché intascano 100 euro a fine anno.
Don Milani, oggi, sarebbe uno sconfitto e, guardandoci attorno, forse ricordarlo è fondamentale.