Le cronache locali ci informano che sulle Piccole Dolomiti vicentine nel gruppo del Carega, proprio sopra Recoaro, si è avuto il rovinoso crollo di un pinnacolo di roccia chiamato Omo perché sorgeva a fianco di uno più piccolo chiamato Dona che ora è rimasto solo a svettare verso il cielo. Una notizia di questo tipo si presta almeno a due interpretazioni.
La prima è di tipo scientifico e riguarda l’erosione che ultimamente sta causando crolli un po’ dovunque nell’arco alpino. La stampa ricorda a questo proposito che negli ultimi tre anni si sono avuti sette crolli solo sulle Dolomiti e più di qualche studioso ipotizza che sia in atto una accelerazione del fenomeno collegabile alle mutazioni climatiche.
Il prof. Aldino Bondesan dell’Università di Padova, professore associato di Geografia Fisica e Geomorfologia evidenzia un incremento dei crolli in quota in parte legato agli effetti di fusione del permafrost, lo strato di ghiaccio (ex) permanente che tiene incollate le rocce. Fusione dovuta all’innalzamento delle temperature medie che produce così la penetrazione dell’acqua nelle fratture e il conseguente distacco.
D’altra parte, non va dimenticato che da milioni di anni le montagne vengono erose dagli agenti atmosferici, crollano, cambiano forma e i grandi ghiaioni alla base delle nostre magnifiche Dolomiti sono lì a ricordarci i segni del tempo che passa con ritmi, per quanto riguarda le mutazioni morfologiche del paesaggio, lentissimi ma inesorabili.
Possiamo farci niente? Probabilmente no se non “monitorare il problema” cioè stare a guardare visto che i tempi di abbandono dei combustibili fossili responsabili del riscaldamento globale (che ancora qualcuno si ostina a contestare) decisi nei vari summit internazionali prevedono se va bene qualche decennio.
La seconda interpretazione dell’evento è invece metaforica. L’Omo è crollato, non ha resistito al passare del tempo, mentre la Dona, magari acciaccata, resta sola al suo posto. Accostata alle terribili e quotidiane notizie di violenze conto le donne in ogni parte d’Italia l’immagine è altamente simbolica.
Passano gli anni ma da questo punto di vista la situazione di quella che una volta si chiamava “la condizione femminile” non sembra fare grandi passi avanti.
Certamente li ha fatti nella legislazione e nel mondo del lavoro anche se c’é ancora moltissimo gap da recuperare.
Certamente li ha fatti nel mondo culturale e scientifico dove i contributi femminili sono ormai talmente all’ordine del giorno che non ci si stupisce più (e ci mancherebbe) se, ad esempio un premio Nobel, viene assegnato ad una scrittrice o ad una ricercatrice.
C’è invece ancora molto da fare nel creare una sorta di etica dell’universo maschile capace di vincere il maledetto stereotipo, che credevamo confinato al passato e che invece non è mai passato, che considera la donna come proprietà personale di cui disporre e su cui far valere ipotetici diritti. Diritti del c……o verrebbe da dire con una metafora neanche tanto riuscita.
Possiamo farci niente? Certamente sì, a cominciare da una inversione a 360 gradi dell’etica dell’antropocene (inteso come mondo dominato dai maschi) fin dai primi anni di età.
A partire dai rapporti fra genitori, intesi soprattutto come esempio per i figli, che restano fondamentali per formare nuove generazioni più consapevoli della assoluta complementarità e interdipendenza tra uomini e donne.
Allora mi piace pensare che il pinnacolo di roccia della Dona che resiste impavido simboleggi in qualche modo la capacità femminile di resistere agli affronti di una certa controparte maschile, incapace di uscire da modi di pensare e intendere i rapporti tra i due sessi rimasti all’età della pietra. Una pietra, appunto, destinata un po’ alla volta a sgretolarsi e crollare.
Sta a noi far sì che avvenga in tempi ben più brevi di quelli geologici.