La sensazione era inspiegabile. Quella di un dormiveglia da cui non riusciva ad emergere. Percepiva intorno a sé un paesaggio dai contorni senza spessore, visioni astratte, avvolte in una sostanza nebbiosa che rendeva stinti i colori. Seduto per terra, appoggiato con la schiena alla scorza di un albero, le dita intrise in qualcosa di simile alla polvere bagnata, non sapeva orientarsi. A tratti, nel sovrapporsi caotico di immagini, gli pareva di intravedere, evanescente, un volto di donna china su di lui. Un viso giovane e contemporaneamente arcaico, o primitivo. Ne intuiva appena i lineamenti, ma lo sguardo intenso era sconvolgente. Una chiazza purpurea dai contorni sfuggenti le incorniciava il viso, forse la capigliatura di una tinta esagerata. La vista indebolita continuava a ingannarlo. Le sembianze apparivano e scomparivano. Facendo uno sforzo d’attenzione, gli pareva di cogliere un’espressione ambigua: compassionevole e severa insieme. Vincenzo avvertiva un bisogno cane di riaddormentarsi, lottava contro la propria volontà, e nel sopore si ripresentava una specie di incubo. Veniva sbalzato nuovamente altrove, in un tempo passato che lo riguardava: immerso in un’oscurità fangosa, acquorea, e tutto intorno uno sfondo indefinibile e freddo dove si agitavano e lo sfioravano filamenti sinuosi come bisce, o lunghe alghe. Gli mancava il respiro. Sognava: una donna, o una creatura aliena pareva trascinarlo verso l’alto. Era vigorosa, sgusciante, nel modo di trattenerlo sdrucciolevole. Avvertiva la stretta energica sul polso che lo riportava a galla, all’aria. La sua percezione era distorta: ora vedeva una scena che gli sembrava reale e prossima, ora un’altra in una scansione di tempo più remoto, inspiegabile. Era sprofondato come un peso morto nell’acqua, soffocato da una massa turbinante e poi risaliva. Provava freddo…
Al colmo della tensione, Vincenzo si scosse. La prima cosa che udì consapevolmente furono gli uccelli. Nascosti tra le fronde dell’olmo sopra la sua testa, i cinguettii lo richiamarono ad una strana normalità. Più oltre un cielo calmo, quasi bianco, lasciava trasparire nel tessuto sbrecciato qualche striatura azzurrata. Con fatica realizzò di essere completamente sveglio.
«Ritorna!» gli parve di udire. Si convinse che la voce proveniva dai meandri sconclusionati del proprio sogno che resisteva: anche la donna – o creatura che fosse – era svanita, se mai c’era stata qualcuna accanto a lui.
Si palpò la giacca, alzandosi in piedi, e la camicia: erano fradice, così come i pantaloni. Anche i capelli grondavano acqua e la sensazione sulla pelle non era piacevole. Tremava.
Cosa ci faceva in quel luogo, così conciato? Raggiunse in breve il ponticello sulla via Motta, senza attraversarlo piegò per un tratto di strada bianca: di lontano avvertì i rintocchi di una campana. Non fece in tempo a contarli. Guardò meccanicamente il quadrante dell’orologio da polso. Era appannato. Le lancette, ferme, segnavano le una e ventitré. Ma che ora era, veramente, e che giorno? L’uomo fu preso da una fretta nervosa, incontrollabile. Era mattina e, in quel momento, forse, doveva trovarsi già in filiale. Ci teneva alla propria reputazione. Non capiva come si fosse ridotto in quello stato. Ma come poteva presentarsi? Iniziò a camminare veloce. Provò anche a correre, appesantito. Doveva raggiungere il parcheggio a fianco della filanda. Incrociando i pochi passanti, mimava un contegno dignitoso che lo rendeva ancora più ridicolo, coi piedi scalpiccianti dentro le scarpe inzuppate. L’amor proprio, almeno quello, gli impediva di lasciarsi andare ad una postura trasandata. Mise in moto l’auto e si avviò. Per strada considerò che i cartelli pubblicitari erano un disturbo al panorama. Rifletteva, meccanicamente. Era più forte di lui la cavillosità, anche in quella situazione imbarazzante. Ora lo aiutava a rimettere i piedi per terra; scacciava l’impressione di anormalità che avvolgeva tutto. Ma la giacchetta strizzata, la cravatta gocciolante gli avevano fatto perdere quel certo aplomb signorile da funzionario di banca sempre inappuntabile che lo rendeva rassicurante ai clienti e gradito ai superiori. Del resto era in ostaggio di chi teneva le sue briglie della carriera. Ai piani alti sapevano come muovere le pedine e spremere il meglio. Già, il meglio. Il meglio per l’Istituto, specie secondo il nuovo indirizzo. Stabilito con determinazione: l’assoluta competitività. I vecchi impiegati faticavano a riconoscersi. Suscitavano tenerezza, come abitanti di un’epoca andata, un tantino romantica, sorretta da colonne marmoree di princìpi inattuali, dove la Banca si vantava di rappresentarsi come un’istituzione neutrale, persino etica, al pari di un notaio. I giovani rampanti come Vincenzo avevano compreso benissimo il nuovo spirito commerciale. Non dovevano scrollarsi fastidiose incrostazioni da dinosauri.
Dal cruscotto della macchina finalmente rilevò la data. Gli comunicava una buona notizia: era domenica. La preoccupazione svanì all’istante. Giunse a casa e si fiondò nel bagno. Un senso di malessere gli saliva dallo stomaco, inacidiva il gusto in bocca, nauseante come la polpa di un caco immaturo. Fu costretto a vomitare tutto il vino, i liquori, gli intrugli che non aveva digerito la notte precedente. Adesso ricordava bene il calvario…
Dopo la doccia calda indugiò a rivestirsi, avvolto nell’accappatoio morbido. Un tepore benefico lo invase: si ficcò nel letto, godendosi intensamente la normalità finalmente raggiunta. Tentò di dormire ancora. Ma il grugare in sordina di una tortora invisibile, appollaiata su un tiglio là fuori, lo disturbava. E dalla tromba delle scale proveniva la solita eco attutita dell’ascensore in movimento: una tensione interiore la trasformava in minaccia indefinibile che, ad ogni fermata, si stemperava in niente. Ogni più piccola variazione richiamava la sua attenzione. Gli impediva il sonno e il cervello, bastardo, mulinava nuovi pensieri poco rilassati. Era uno di quei momenti deprimenti, quando l’intimità si stende davanti come un foglio di dare/avere. Non pretendeva una confessione da giorno del giudizio, ma gli chiedeva chiarezza.
Il ragionier Vincenzo computò con competenza: sulla colonna dell’avere poteva vantare una solida posizione economica, e le prospettive ragguardevoli di un funzionario ancora giovane. Sulla colonna del dare non si preoccupava troppo di aver sacrificato la vita privata: soprattutto gli affetti. Aveva fatto i suoi bravi calcoli. Ci sarebbe stato tempo per rifarsi, quando lo avesse ritenuto. In progetto, più avanti, magari poteva rientrare anche di trovarsi una ragazza fissa. Secondo il suo credo, bisognava scegliere le priorità e non aveva tentennamenti. Era ambizioso: impegolarsi troppo presto, l’avrebbe fregato.
Mentalmente ragionò che il giorno successivo aveva in agenda un appuntamento fastidioso, ma era pronto. In fondo si trattava soltanto di una bega con una cliente non tanto sveglia: quella storia oramai ritrita della vedova. Si era messa nelle sue mani. L’anziana aveva un certo deposito da parte. Giaceva immobile in conto corrente. A tempo debito Vincenzo aveva individuato l’occasione, se l’era chiamata da parte, in ufficio; le aveva fatto la proposta, come un figlio avveduto che parlasse alla propria madre, in parte biasimandola. Perché non convertire i soldi che si svalutavano, in “strumenti” più moderni e remunerativi? A lasciarli fermi, ogni anno, col tarlo dell’inflazione si mangiava qualcosa. La signora era titubante, non capiva niente di finanza. Per questo c’era lui. Al funzionario era stato facile convincerla. Aveva usato con indubbia competenza il proprio ascendente. Le aveva fatto dirottare quasi tutto il capitale, convertendolo in lucrose azioni della Banca. La somma da parte non era indifferente: frutto del lavoro del caro estinto e della sua prudenza.
E poi Vincenzo era stato un tesoro. Da affidabile consulente le aveva impedito di giocarsi tutto nelle azioni, come era disposta a fare con leggerezza la signora. Le aveva fatto mantenere in conto corrente una quota, minimale. Non si sa mai. Aggiunta alla pensione, non le avrebbe fatto mancare la liquidità necessaria. La vedova si sentiva tutelata da un simile amico, più scrupoloso di un parente. L’aveva ringraziato tanto, piena di riconoscenza.
Anche il direttore si era congratulato con Vincenzo, dopo, per l’operazione brillante. Del resto erano queste le istruzioni: acquisire sottoscrizioni quanto più possibile, per rafforzare l’Istituto. La cifra della vedova non era un’enormità, rispetto al volume movimentato dalla Banca, ma il mare è fatto di gocce d’acqua.
Giravano chiacchiere pesanti. Più che voci erano rating. La banca era molto sbilanciata, il dissesto stava dilagando. Lo sapeva bene Vincenzo. Certe operazioni offerte ai clienti avevano un rischio, ma controllato, secondo lui. Intanto avrebbero rimpolpato le casse e in pochi anni tutto sarebbe andato a posto. Le banche non falliscono mai e certo non il suo Istituto. In fondo tutelare la Banca, indipendentemente da altre considerazioni, significava tutelare il proprio futuro e Vincenzo, il ragionier Vincenzo, era innanzitutto un lavoratore bancario.
Ma soltanto due mesi dopo la vedova aveva chiesto un appuntamento urgente. Desiderava già vendere le proprie azioni: che strazio! Vincenzo la ascoltò pazientemente. La signora spiegò, ancorché non fosse tenuta, che i soldi le servivano subito. Doveva recarsi negli Stati Uniti, precisamente a Houston. Non era per turismo: non c’entrava la base missilistica. Gli confessò che si trattava di un problema di cuore. Il ragionier Vincenzo, data la confidenza, si permise di scherzare: le disse, sorridente, che l’Italia era piena di bella gente di cui innamorarsi. Ma lei non era proprio in vena di ridere: i soldi, e tanti, le servivano per un’operazione chirurgica. Le avevano diagnosticato una brutta cosa, molto difficile da trattare, nell’area vicina al cuore. Aveva deciso di rivolgersi all’MD Anderson Center. Costava una fortuna. Era considerato il migliore ospedale del mondo. Per favore, che Vincenzo le liberasse subito la somma. Intanto le servivano centosettantamila euro.
Al ragioniere vennero, come si dice, i sudori freddi. Sulle prime tentò di dirottarla su altre soluzioni: non era proprio il momento di vendere. Le azioni della Banca avevano perduto gran parte del proprio valore, il mercato purtroppo è così, ora va su ora va giù, e non era facile recuperare qualcosa di sostanzioso. Era preferibile, anzi necessario attendere. Magari, intanto, che attingesse ad un prestito, provvisoriamente. Era opportuno lasciar riprendere fiato alle azioni. Si era spinto a suggerirle che valutasse ancora l’opportunità di farsi operare nel nostro paese. Certi costosi viaggi della speranza spesso sono inutili: qui abbiamo medici blasonati. E grazie a Dio la nostra cassa di malattia funziona. Ed è gratuita…
Ma la vedova, ovviamente, non aveva né voglia né abbastanza tempo per rimandare una decisione che, purtroppo, aveva già valutato. Che il ragioniere, per favore, agisse. E in fretta.
Vincenzo era stato costretto a rivelarle come stavano davvero le cose: le azioni della Banca si erano svalutate, carta straccia. La signora non aveva letto i giornali? Nessuno le avrebbe mai acquistate. Del resto lui era incolpevole per come erano andate le cose…e anche la Banca era innocente, in un certo senso. Non era certo il caso di spiegarle i meccanismi perversi che stavano sotto al risultato pessimo. O parlarle, di subprime e crediti inesigibili, di rischi improvvidi, di malaffari con certi amici. Bastò dirle che tutta la colpa era del mercato bastardo e della crisi. Punto e basta.
Il ragionier Vincenzo aveva provato anche a coinvolgerla, paventando un dramma: lui stesso e migliaia di colleghi ora rischiavano di restare per strada. In altre parole la Banca era sull’orlo del fallimento.
La vedova passò da un mutismo sconsolato, ai tentativi di risolvere il proprio caso con soluzioni bonarie e impossibili, alle minacce furiose. Pianse molto, davanti al funzionario e per la stretta che provava nel petto, rischiò di risolvere definitivamente, lì per lì, il suo problema di cuore.
Vincenzo, che non era una bestia, l’assistette finché la donna un poco si riprese e imprecando contro la malafede di tutte le banche, se ne andò sconvolta.
Il funzionario tirò un sospiro. Del resto in quei mesi la scena dei clienti inferociti si ripeteva continuamente. Metteva a dura prova i nervi. Ma un conto era rispondere agli attacchi di gente danarosa che aveva perso qualcosa del proprio ingente capitale, un conto era una combinazione disperata come con la vedova.
Quella sera era uscito dalla filiale amareggiato. Aveva proprio bisogno di scaricare i nervi. Così aveva trascorso la serata con qualche amico alla cicchetteria El barco nel borgo di Campocroce. Aveva lasciato l’auto più lontano, vicino alla filanda, per sgranchirsi le gambe. Tra una fetta di buon salame e un pezzo di formaggio, aveva alzato il gomito parecchio. Infine, ubriaco strafatto, aveva preteso di tornare a casa sua da solo e a piedi. In preda all’euforia aveva imboccato un percorso più lungo, sull’argine erboso del fiume Zero. Inciampando malamente sulla rugiada ad un certo punto era ruzzolato in acqua, sprofondando. Si era salvato. Chissà come…
Vincenzo doveva incontrare nuovamente la vedova, quel prossimo lunedì. Oramai, era costretto a subire spesso il fastidioso pellegrinaggio della donna che non poteva rassegnarsi: le condizioni di salute peggioravano e, allontanandosi la soluzione, la sua sorte non lasciava scampo. Il giovane funzionario, almeno verso se stesso, aveva gettato la maschera: la responsabilità di quel caso lo mordeva. Non funzionava, se tentava di ridimensionare la colpa, trincerarsi dietro al ruolo di dipendente che non può rifiutare gli ordini dei superiori. In fondo, lo sapeva bene: da sempre i sottoposti hanno giustificato le proprie nefandezze, facendosi paravento dei capi. Nazisti o speculatori, colonialisti o sfruttatori, i loro yes-men sono stati disposti a collaborare senza patemi d’animo. Per interesse. O vigliaccheria. O tutte e due. Vincenzo era stato implacabile verso se stesso, rimpiangeva quei no, molto dignitosi, che non aveva saputo dire. Adesso la coscienza aveva un peso insopportabile, ma oramai era caduto in trappola, come un furfante in camicia bianca. La notte si arrovellò alla ricerca di un espediente per aiutare almeno quella donna sfortunata, tra i tanti che aveva ingannato per assecondare la banca. Fu un processo doloroso: alla fine decise.
Anche lui aveva da parte dei soldi. Saggiamente non li aveva fatti confluire nelle azioni disgraziate. In breve: quel lunedì mattina successivo dispose, d’istinto, per un bonifico immediato a favore della vedova.
Quando lei si ripresentò all’appuntamento, le raccontò un’ennesima bugia, per spiegarle come nel suo conto ora si trovasse tutta la cifra a disposizione. Non voleva passare da eroe, né da babbeo. La signora non si fece altre domande. Semplicemente era felice: lo abbracciò, lo onorò con un sacco di convenevoli e finalmente lasciò la Banca con un bell’assegno circolare in borsetta: la propria assicurazione sulla vita.
Il giovane funzionario, naturalmente, non era contento. Non poteva affrontare in modo disinvolto la circostanza di aver buttato all’aria i propri risparmi. Professionalmente, da bancario, considerava una vera sciocchezza la donazione che aveva fatto. Provava del livore verso la Banca e non meno verso se stesso. Ma adesso, mano a mano che trascorrevano le ore, almeno gli pareva che si allentasse una morsa che prima gli stringeva la testa e se ne fece una ragione.
Era notte fonda quando, dopo cena, finalmente libero dal senso di malessere e attratto da un richiamo arcano, richiuse la porta di casa dietro di sé e si avviò a passeggiare all’aperto. Non aveva sonno: in cielo il chiarore della falce lunare calante e le stelle lasciavano intuire una scenografia di inesauribile bellezza, anche se offuscata dalle luci artificiali cittadine. Decise di allontanarsi dal centro di Mogliano, per godersela appieno. Avvertiva più che mai l’esigenza di sensazioni semplici: prese l’auto e percorse qualche chilometro, di nuovo fino a Campocroce: amava quel luogo defilato. Stavolta parcheggiò proprio davanti al locale che era già chiuso. Risalì sull’argine: sotto di lui il fiume Zero, come uno specchio bronzeo, rifletteva una mappa rovesciata del firmamento.
Vincenzo camminava tranquillo, in semioscurità. La luce della luna, e i suoi occhi orami abituati alla semioscurità, bastavano a infondergli sicurezza nel passo.
Accostata ad un albero, in un’ansa del fiume riconobbe, con un sussulto, una sagoma. Non si allarmò: era solo sorpreso dall’imprevisto. Tanto più che gli pareva una figura femminile: improbabile che si trattasse di una ragazza di strada. Appostata in quel tratto non aveva proprio alcun senso. Piuttosto un’anima insonne, irrequieta come lui. Mentre si avvicinava, ne colse più distintamente i dettagli: la folta capigliatura rossa si spartiva su un viso dolce, con una nota misteriosa di ambiguità, ma non volgare; una figura slanciata. Per uno strano riverbero, la pelle pareva assumere un colorito pallido simile a quello dei vegetali. La riconobbe. Fece caso che la creatura era ferma, e come in attesa. Ora Vincenzo sapeva mettere a fuoco, nella mente, ogni particolare prima confuso. Fu preso da un presentimento, un’arcana inquietudine. Avanzò ancora, titubante. Procedendo con lentezza, elaborò senza fraintendimenti una certezza: era giunto ad un appuntamento ineludibile.
Quando le fu davanti disse, in un sussurro timido: «Provo paura». Ma la tensione, quasi per magia, si dissolse presto non appena la creatura, in silenzio, lo prese per mano e gli sorrise con un’espressione contagiosa di serenità. Vincenzo si lasciò guidare docilmente. Percorsero insieme, scendendo, i pochi passi che li separavano dalla superficie del fiume. Entrarono nell’acqua.
Adesso era tempo che il destino rinviato del giovane si compisse, liberato dalle proprie meschinità. L’anguana lo tenne vicino a sé, come un’amante pietosa, mentre lo trascinava giù, sempre più giù. Vincenzo non provò più alcun brivido: non emise un solo grido, a sconvolgere gli ultimi istanti della propria vita. Lentamente sparirono, come in un battesimo definitivo, tra i cerchi nell’acqua che presto si dissolsero sopra di loro. Il fiume Zero scorreva imperturbabile.
Tenero