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Viviamo in un territorio che gronda acque in ogni suo angolo. Un territorio che, come disse un giorno un oscuro naturalista generalista – lo stesso che sta scrivendo – è il più ricco di biotopi acquatici dell’intero Continente europeo.
Non ci credete? Bene, è legittimo, ma pensate se mai esiste un altro angolo d’Europa in cui siano presenti, contestualmente, fiumi alpini, fiumi prealpini, fiumi e ruscelli di risorgiva, canali di bonifica, capifosso, fossi e scoline e poi cave senili, paludi dolci e torbiere (una, distrutta dalla cattiva gestione del Parco del Sile); e poi valli da pesca, lagune salmastre e marine e acque marine costiere.
Esiste? Bene, se esiste ci siamo sbagliati.
Comunque sia, questa premessa era soltanto per dire che un patrimonio di fauna ittica, che tradotto in italiano popolare significa Pesci, come quello presente nelle acque dolci della Pianura Veneta Orientale, era difficilmente riscontrabile altrove.
Migliaia e migliaia di tonnellate di lucci, tinche, scardole, triotti, alborelle, cavedani, trote fario, anguille, scazzoni, marcandole, cui i Romani avevano aggiunto le carpe del Danubio, seguite nell’Ottocento dai pescigatto americani, dai carassi dorati cinesi e dalle gambusie.
Tanto ben di Dio da farci campare decine e decine di famiglie di pescatori di fiume, da farci passare giornate intere a migliaia di ragazzini appassionati di pesca e da consentire alla gente di campagna di consumare qualche migliaio di tonnellate l’anno di polenta.
Poi è giunto il “Boom economico”, è giunta l’era dei capannoni, degli scarichi liberi di cromo esavalente nei fossi delle Zone industriali di paese (centinaia e centinaia), dell’impiego incontrollato di sostanze chimiche nelle campagne, dell’urbanizzazione intensiva e con scarico fognario libero (quanta “libertà”). Ma se questo non fosse bastato, è giunto il benessere collettivo e i pescatori sono diventati “garisti”, dotandosi di canne da pesca in carbonio pagate a peso d’oro e organizzando “gare di pesca” (una delle attività più assurde concepite da mente umana) con centinaia di partecipanti.
Così dunque, proprio così, è cominciato il collasso dell’ittiofauna territoriale: con l’inquinamento diffuso delle acque dolci e con la liberazione di decine di specie di pesci estranei al nostro ambiente. Sì perché forse noi sai, caro Lettore solitario, che ad ogni gara di pesca si doveva (e si deve) immettere nel corso d’acqua una quantità di pesce vivo pari al peso del pescato. Lodevolissima regola di “ripristino faunistico” (paragonabile a quella per cui si taglia un bosco secolare e si mettono a dimora qualche centinaio di pianticelle; anzi, anche peggio), se non fosse che il “pesce vivo” veniva da allevamenti in cui erano presenti anche specie di pesci del Danubio, del Volga, del Mississippi e del Mekong.
Per farla breve e non annoiarti, è accaduto che negli ultimi due decenni del Novecento e nei primi due del Terzo Millennio (quello in cui si spera di spedire i fascisti su Marte, pur se qualche dubbio è lecito) si è verificato un disastroso collasso della fauna ittica autoctona. Cosicché, oggi, non solo fare il bagno nei fossi (e nello Zero) è semplicemente letale, ma si rischia di essere assaliti da un Siluro del Danubio lungo un paio di metri. Le acque interne del territorio, con inquinamenti record, sono popolate quasi esclusivamente da carassi cinesi (i soli a resistere con sole cinque parti per milione di ossigeno disciolto nell’acqua), siluri del Volga, gambusie americane e carpe danubiane. Le anguille e le tinche dal ventre dorato sono scomparse e sono scomparsi i preziosi indicatori di acque pulite come le alborelle, gli scazzoni, le marcandole, mentre i lucci sono ormai rari.
Questo abbiamo combinato, a riguardo del nostro ecosistema delle acque dolci, allegramente e, soprattutto, liberamente, come piace agli italiani.
A questo, caro Lettore, dovrai pensare, ogni qualvolta volgerai lo sguardo verso un qualsiasi corso d’acqua del tuo ambiente domestico.