Le sostanze “perfluoroalchiliche”(PFAS) prodotte per alcuni decenni dalla Miteni di Trissino hanno contaminato le acque superficiali, sotterranee e potabili di tre province del Veneto dove vivono 350.000 persone.
Uno studio condotto dal Professor Annibale Biggeri dell’Università di Padova, in collaborazione con il Servizio statistico dell’Istituto Superiore di Sanità, ha dimostrato come nella “zona rossa” (le parti delle province di Vicenza, Padova, Verona le cui acque sono state contaminate) l’esposizione ai Pfas nel corso di 34 anni (dal 1985 al 2018) ha causato quasi 4000 decessi in più per malattie cardiovascolari e malattie neoplastiche rispetto alla media delle morti attese su base statistica. Il “tempo” (34 anni) ci sbatte in faccia la realtà: una realtà che supera ogni immaginazione pessimistica, sia per il numero dei decessi, sia per le caratteristiche delle patologie, sia per le caratteristiche anagrafiche delle persone colpite. Quest’ultimo dato è di una tristezza e di una gravità imperdonabile per una società umana. Scrivono infatti i ricercatori: “l’analisi delle diverse classi di età ha evidenziato un aumento del rischio di insorgenza di malattie tumorali al diminuire dell’età”. L’esposizione ai Pfas delle donne in gravidanza e dei bambini ha fatto sì che la popolazione più giovane risulti la più esposta.
Ad aggravare il clima sociale di quel territorio contribuisce l’inazione della Regione e dello Stato che a 11 anni dalla scoperta della contaminazione non hanno ancora dato avvio all’indagine epidemiologica: uno strumento fondamentale in grado di garantire “un’analisi a lungo termine” dell’impatto dei Pfas sulla salute della popolazione esposta. La Regione Veneto, sull’urgenza dell’indagine epidemiologica e su una costosa “grande opera” di pubblica utilità come la “bonifica”, si guarda bene, in questo caso, dall’invocare l’autonomia differenziata visto e considerato che la norma costituzionale attuale, quella che la maggioranza di governo regionale e nazionale vuole regionalizzare, stabilisce essere una competenza statale lo “stato dell’ambiente (articolo 117 comma 2 lett.s). Ma la regione Veneto ha fatto di peggio: per quattro anni ha negato l’accesso ai dati analitici raccolti negli anni 2016-2017 per la ricerca della presenza dei pfas negli alimenti coltivati nella zona rossa e poi ha proseguito nella sua inazione non realizzando, negli anni successivi al 2016-2017, ulteriori campionamenti almeno annuali sui cibi contaminati.
Ma come viene narrato quello che sta accadendo alla terra veneta?
Mentre nel caso dei Pfas la “narrazione addomesticata” del dramma ambientale è caratterizzata da sottovalutazione, superficialità, indifferenza, nel caso della Spv il “giornalismo giullare” esalta il mantra infrastrutturale dando prova di una ignoranza ecologica, storica e culturale che dovrebbe suonare addirittura offensiva ai veneti. Si assiste ad una narrazione che censura “situazioni limite”, ecologiche e climatiche, che il “tempo” farà affiorare. Con la Spv si sono perduti 900 ettari di campagna veneta che fornivano molteplici servizi ecosistemici (temperatura, assorbimento CO2, infiltrazione acqua meteorica, biodiversità, umidità, inquinamento dell’aria, ecc.). Con la Spv, grazie a migliaia di espropri di suolo agricolo, si è precluso nell’area pedemontana un possibile sviluppo di un’agricoltura contadina e il contestuale recupero identitario e antropologico della tradizione agricola veneta, oltre a compromettere irrimediabilmente il paesaggio veneto. Dei 94 km della Spv ben 52 km sono in trincea e hanno comportato l’asportazione di almeno 10 metri dello strato ghiaioso sopra un “voluminoso acquifero di falda” con tutti i possibili effetti sull’ecosistema idrico dell’area settentrionale del Veneto e sulla loro funzione drenante delle acque meteoriche. In nome della “funzionalità”, il nuovo mantra della “rendita fondiaria”, la grande e celebratissima infrastruttura determinerà l’abbandono di immobili produttivi e residenziali sorti nella prima edizione del miracolo del Nord-Est e attirerà nuovi centri commerciali, insediamenti residenziali e produttivi, poli logistici, capannoni, presso i caselli della Spv dando forma alla seconda e desertificante edizione del miracolo del Nord-Est: come se la “terra veneta” fosse una risorsa rinnovabile e nonostante un immenso patrimonio edilizio inutilizzato.
Un modello folle di “progresso scorsoio”(Andrea Zanzotto) che accentuerà la perdita di servizi ecosistemici e nuovo dissesto idrogeologico in una regione che in base alla Carta di Copertura del Suolo (CCS), elaborata nel 2012 secondo quanto indicato dal progetto europeo Corine Land Cover alla scala 1:10000 di elevato dettaglio geometrico, la superficie urbanizzata è pari al 14,6% (con più del 35% del proprio territorio occupato da montagne e superfici acquee). Ma niente paura veneti, come per i Pfas, per il momento, in attesa del varo dell’autonomia differenziata, per le “calamità innaturali” prodotte da una affaristica e disordinata pianificazione urbanistica regionale si potrà invocare l’intervento di Roma ladrona in base all’attuale articolo 117 comma 2 lett. s. della nostra calpestata Costituzione, invocando la “competenza esclusiva dello Stato” in materia di “tutela dell’ambiente e degli ecosistemi”.