Nel “Romeo e Giulietta” di Shakespare c’è una gustosa scena che lascia peraltro perplessi i naturalisti e in particolare gli ornitologi. Questi ultimi, la maggioranza assoluta tra i naturalisti, dato il potere di attrazione degli Uccelli, hanno infine perdonato il grande drammaturgo inglese, concedendogli, non senza accese discussioni, la licenza poetica.
La scena vede i due giovani amanti che, alle soglie del giorno si interrogano a vicenda sulla specie a cui attribuire il canto che giunge dall’esterno. “E’ l’allodola” dice lui, che ha fretta di andarsene dalla stanza dell’amata prima che faccia giorno. “No, è l’usignolo” ribatte lei, che non vorrebbe interrompere gli intensi momenti del piacere.
Sta di fatto che, se l’allodola canta al sorgere del sole, l’usignolo canta invece, preferibilmente, di notte e dunque il dolce confronto ornitologico si protrae per lunghi minuti, prima che Romeo decida di abbandonare il profumo inebriante delle lenzuola di lei.
Ora, immaginiamo due amanti che, a Mogliano, così come in ogni altro angolo del Veneto, siano teneramente impegnati nel cogliere i suoni e i rumori che giungono dall’esterno, per capire se sia o meno l’ora di interrompere la ginnastica sessuale. “Questa è la Nettezza urbana che svuota la campana del vetro” direbbe lui, sottintendendo che il servizio viene svolto solo all’alba. “No, questo è un aereo o forse un TIR” risponderebbe lei, lasciando intendere che i TIR e gli aerei non hanno orari e che pertanto potrebbe essere ancora notte.
A nessuno dei due, ovviamente, verrebbe in mente di rifarsi al canto degli uccelli; perché se le allodole sono ormai estinte, salvo che durante i passi, il canto degli usignoli è un privilegio concesso davvero a pochi.
Che tristezza, se si pensa che a scuola, verso la metà del secolo scorso e dunque non in Epoca romana, ci insegnavano che il canto dell’Usignolo, il cui nome scientifico fa Luscinia megarhynchos (ma non ditelo a nessuno, altrimenti vi classificano come “radical scich”) celebrava la primavera.
A proposito, cari Lettori e Lettrici (immagino migliaia), chi di voi ha mai visto un usignolo? E chi ne sa riconoscere il canto?
Immagino quasi tutti, mentre sono assai pochi, invece, quelli che ne sanno riconoscere il richiamo d’allarme, che maschio e femmina diffondono quando un pericolo (e cioè un umano, un serpente o una puzzola) si avvicina eccessivamente al nido.
La ragione di questa diffusa ignoranza ornitologica sta nel fatto che ormai gli usignoli sono diventati rari, come si diceva, ma non per aver trovato luoghi più accoglienti della fumante “Locomotiva del Nordest e della Secessione”, bensì perché abbiamo distrutto le siepi di rovo, ucciso gli insetti, avvelenato le acque e tombato i fossi. Abbiamo cioè sottratto a questo splendido abitante dell’ombra l’habitat riproduttivo e il cibo e dunque i due presupposti indispensabili per l’insediamento di una specie selvatica.
“Beh, poco male”, dirà qualcuno, “io non me n’ero neppure accorto”.
E’ vero, nessuno o quasi sembra essersene accorto. Perché quando manca soltanto una tessera del grande mosaico ecositemico dell’ambiente umanizzato, nessuno se ne accorge. Perdendo una tessera alla volta, però, il mosaico armonioso, colorato e pure musicale, diviene poco a poco sbiadito e silenzioso, riverberando il suo degrado sul nostro animo, non meno che sul nostro fisico.
Per questo dovremmo ricostruire siepi di rovo e “bari de ortighe” (non so come si dica in termini scientifici) nei nostri campi e giardini. Per consentire a questo bellissimo insettivoro migratore sud-sahariano, che ogni autunno e primavera compie il viaggio che noi abbiamo sognato tutta la vita, di tornare a cantare nelle nostre notti.