Del caso e del vero e proprio calvario riguardante il giornalista Julian Assange parlai già a suo tempo su queste stesse colonne.
Oggi la democrazia ha fatto un passo, magari zoppo e tardivo, verso la restituzione della libertà ad un uomo utile alla società. È accaduto in un momento che considero l’ultimo possibile, per portare a compimento quest’operazione obiettivamente imbarazzante: le incombenti elezioni di un presidente americano, che potrebbe risultare anche Trump, metterebbero a rischio le ragioni di Assange: cambiando il clima politico, malgrado la giustizia dovrebbe essere esente da interferenze, di fatto renderebbe ancora tecnicamente possibile una condanna vicina a qualcosa come 175 anni di carcere. La colpa di quest’uomo? Aver svelato dei segreti militari scottanti. Ma è una colpa fare del giornalismo d’inchiesta? Lo aveva fatto pubblicando settecentocinquantamila documenti originali, fuoriusciti dalle stanze segrete dei servizi di sicurezza statunitensi con l’aiuto di una talpa, dalle pagine di Wikileaks: l’organizzazione – senza fini di lucro – da lui stesso fondata. Come motto programmatico aveva adottato le parole dello scrittore Hermann Hesse, tratte dal suo celeberrimo romanzo Siddharta: «Tre cose non possono essere nascoste a lungo: la Luna, il Sole e la Verità.»
Dagli atti originali risaltano le trame e i soprusi commessi, specie dal governo americano e poi anche dal pakistano, i doppi giochi; inoltre le evasioni fiscali e il riciclo di danaro sporco da parte di una blasonata banca svizzera. Tanto altro: i massacri compiuti da Al Quaida, i bimbi dati in pasto ai cani; e le vere cifre, in precedenza sottostimate prudentemente di 15.000 unità, sui morti ammazzati nell’inutile guerra contro l’Iraq.
Assange è stato sottoposto ad una caccia spietata, di fatto tenuto imprigionato in varie forme per dodici anni, rischiando di essere anche assassinato dai servizi segreti della Cia nel 2017, come risulta dalle dichiarazioni di ex funzionari governativi. Era appena iniziata l’amministrazione di Donald Trump. Quale era stata la convenienza personale, ritenuta reato, di Assange? Nessuna. Si era imposto esclusivamente di rendere un servizio di chiarezza alla comunità, annebbiata dalle dichiarazioni ufficiali e dall’ipocrisia.
La soluzione compromissoria adottata in questi giorni per liberarlo, intuitivamente va ascritta a merito anche dell’amministrazione Biden che si è mossa per rendere operativo una sorta di patteggiamento: ha previsto l’ammissione di colpevolezza parziale, da parte di Assange, per un unico capo di imputazione (cospirazione per ottenere e diffondere informazioni sulla difesa nazionale” degli Stati Uniti). La condanna comminatagli è stata ad una pena detentiva da lui già abbondantemente scontata nel carcere di massima sicurezza inglese. E il divieto di rientrare negli Stati Uniti. Ecco dunque la libertà. Aperta la gabbia, Assange è volato come un uccello verso il suo Paese: l’Australia. E vissero tutti felici e contenti…
Non proprio. L’intuibile contropartita è pesante: l’uomo è stato minato nel fisico. La capacità di esercitare il suo legittimo ruolo di giornalista d’inchiesta è stato tarpata. Altri colleghi, intimoriti dall’esito problematico evidenziato dalle sue disavventure, si gratteranno la testa, prima di intraprendere un analogo percorso esiziale.
La vita di un uomo, il proprio istinto di sopravvivenza meritano il rispetto dovuto ai meravigliosi perdenti, a coloro che per amore o per forza cedettero ai potenti con l’abiura, per salvare la pellaccia: vien facile pensare ai nomi di Galileo, alle conversioni forzate degli ebrei, all’Inquisizione, ai giuramenti forzati di fedeltà al fascismo degli insegnanti. Tanti episodi che sottolineano la fragilità dell’individuo rispetto alla macchina sovrastante del Potere: “Mai attirare l’attenzione! Starsene tranquilli, anche se si va contro ragione!” sottolineava Kafka nel suo Il processo. Ed ancora: «Tu fraintendi la situazione,» disse il sacerdote, «la sentenza non viene ad un tratto, è il processo che poco a poco si trasforma in sentenza.» «Ah, è così,» disse K. abbassando il capo.
Non sappiamo se Julian Assange abbasserà il capo e uscirà dalla scena con un esito almeno fisicamente più propizio di quello del protagonista de Il processo kafkiano. Forse gli basterà respirare finalmente l’aria del suo strabiliante continente, dove la natura è ancora padrona della scena e quel che non è umano risponde alla prevedibilità delle cose trasparenti.
Oggi possiamo solo dire, mancandoci la parola, che ammiriamo il coraggio di Julian Assange, espresso in tanti anni di logoramento, con sostanziale coerenza. Questa storia sembra proporci un finale lieto da tipico film americano, ma noi sappiamo –invece – che è aperto: non ci è dato conoscere i tumulti ascosi della coscienza per questa brutta faccenda, accaduta veramente. E quali saranno le conseguenze provocate in un uomo, solo apparentemente svuotato delle proprie ragioni che sono anche le nostre ragioni del diritto.