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Clandestini! Siamo una nazione zeppa di clandestini. Anzi, ne siamo traboccanti, invasi, usurpati degli spazi vitali e insidiati nel sacro “Dio, Patria e Famiglia”, così caro a certa destra reazionaria, cattolica, consumista, antiecologista e analfabeta di ritorno.
Ma certo, “prima i Veneti!!!” dirà qualche nostro lettore in vena di facezie e di simpatie per Orban.
Sta di fatto che i clandestini di cui parliamo si chiamano Albicocco, Pesco, Noce, Susino, Cotogno, Fico e altri ancora, a formare una schiera numerosa, sterminata, invasiva e … indispensabile.
Se avessimo applicato la massima leghista a questi clandestini, oggi ci ritroveremmo a mangiare soltanto mele selvatiche grandi e dure come una noce e peri selvatici buoni solo per gli scoiattoli.
Invece, fortunatamente, i clandestini, vegetali e non solo, sono una ricchezza.
Ma non è questa la sede per dibattere dell’imbecillità di questa o quella parte politica, bensì per parlare di Scienze Naturali, per indottrinare il Popolo sulla bellezza che lo circonda e per insegnargli che l’ecologia (assai più che l’economia) è la base di tutto e, soprattutto, del suo futuro.
Eccoci allora a parlare del Fico. Di questo albero/arbusto clandestino, che risponde al nome scientifico di Ficus carica e che ci giunge dal Medio Oriente, di cui è originario, sulle navi dei Fenici, più di duemila anni fa.
Un clandestino che si è subito trovato bene nella penisola protesa sul Mediterraneo, naturalizzandosi rapidamente e diffondendosi, sia per mano dell’uomo, che spontaneamente, pressoché ovunque.
Un arbusto o piccolo albero che tutti (mi auguro) conoscono e se non lo conoscete cominciate da una buona marmellata di fichi e capirete perché i Romani ne avevano particolare considerazione e cura. Il Fico, infatti, ha fatto scoprire loro la dolcezza dei frutti, il solo zucchero disponibile a quei tempi, oltre al miele d’api.
Tutti dunque lo conoscono, per la grande foglia profondamente lobata, ruvida e di un verde intenso, per la corteccia liscia e di colore grigio, ma anche e soprattutto per i frutti. Dolcissimi, questi ultimi, che si colgono a metà o nella tarda estate e che sono un autentico dono della Natura (diabetici esclusi, ovviamente). Non tutti, probabilmente sanno, però, che si tratta di una specie dalla sessualità complessa, con individui detti “maschili” e dunque produttori di polline ed individui detti “femminili”, che producono frutti con semi.
A dire il vero le cose non sono proprio così semplici, ma risparmiamo al lettore ulteriori, incomprensibili note di fisiologia vegetale.
“Beato l’uomo (e in subordine la donna) che coltiva un grande fico in giardino” diceva un vecchio saggio (non cercate nella Bibbia, perché il “vecchio saggio” di cui si parla è chi scrive). Chi possiede un fico possiede un tesoro, che può lasciare in eredità, dato che la pianta può raggiungere agevolmente i due secoli di vita.
Comunque sia, il Fico, pianta ruderale per eccellenza, si è conquistato tutti gli spazi residuali possibili: dalla vetta dei campanili, ai muri veneziani, dalle adiacenze dei ruderi delle case contadine, che continua a vegliare per anni dopo il loro abbandono, agli incolti delle golene fluviali, dei litorali e della collina.
Personalmente ho una grande ammirazione per questo “organismo vegetale” (vi piace la definizione colta?) e se a voi l’ammirazione difetta vi consiglio di fare una capatina al Parco Fluviale, presso il Ponte della Vittoria, di San Donà di Piave. Qui, all’estremità orientale dell’area, troverete un “fico-mangrovia” che si è trasformato in minuscola foresta, radicando con l’estremità dei rami che toccano il suolo.
Un autentico prodigio della natura, altroché un clandestino.
Buona marmellata a tutti.