Una vicenda produttiva difficile ha cucito addosso a quella che resta la più venduta Alfa Romeo di sempre una immagine negativa che ha oscurato i suoi molti pregi.
Poche automobili hanno patito di una nomea così poco lusinghiera come l’Alfasud che in realtà è stato un modello ricco di contenuti innovativi e grandi doti meccaniche. La storia di questa Alfa Romeo, la prima nata lontano da Milano, è emblematica di un periodo storico denso di problematiche socio-economiche, caratterizzato da una fortissima conflittualità sindacale e da una pesante ingerenza politica nella gestione del progetto. Fin dalla sua apparizione, infatti, l’Alfasud fu segnata dal peccato originale di essere simbolo di un Meridione ritenuto inaffidabile dove una manodopera non all’altezza imposta da logiche clientelari aveva prodotto un’automobile lontana dagli standard qualitativi delle Alfa Romeo costruite ad Arese.
Tutto inizia verso la fine degli anni Sessanta quando, nel tentativo lodevole di limitare il massiccio esodo di forza lavoro verso le regioni settentrionali e i conseguenti problemi sociali e di integrazione, il presidente dell’Alfa Romeo Giuseppe Luraghi decise di convertire il vecchio stabilimento di Pomigliano d’Arco (NA) costruito dalla Casa milanese negli anni Trenta per la produzione di materiale aeronautico in un moderno impianto automobilistico dove sarebbero state addestrate maestranze locali, prodotta un automobile nuova e stimolato lo sviluppo di un indotto. Così il 17 gennaio 1968 nasceva l’Industria Napoletana Costruzione Autoveicoli Alfa Romeo-Alfasud S.p.A. per il cui progetto furono stanziati poco più di 300 miliardi di lire finanziati in gran parte dalla Cassa del Mezzogiorno e dal Banco di Napoli. Amministratore delegato e direttore generale della nuova realtà industriale fu nominato l’ingegnere austriaco Rudolf Hruska, uno dei più importanti tecnici internazionali nel settore auto, già collaboratore di Porsche e Fiat e consulente Finmeccanica, la finanziaria dell’IRI proprietaria dell’Alfa Romeo. A regime erano previsti poco più di 16.000 dipendenti e una capacità produttiva di 300.000 vetture l’anno.
Ma con quale nuovo modello la casa milanese intendeva inserirsi nella categoria delle utilitarie, settore nel quale non aveva nessuna esperienza e che da sempre in Italia era feudo incontrastato della Fiat? I requisiti essenziali previsti dallo “cahier des charges” di Hruska erano compattezza, efficienza aerodinamica e aspetto sportivo. Dello stile si sarebbe occupata la Italdesign di Moncalieri, creata da Giorgetto Giugiaro e Aldo Mantovani proprio in occasione del progetto Alfasud. Nell’estate del 1967 il designer torinese disegnò una due volumi a quattro porte con altezza contenuta, linee morbide ed equilibrate e coda tronca ottenendo un CX (coefficente di penetrazione aerodinamica) di 0,41, piuttosto buono per la categoria. L’abitacolo dall’ampia superficie vetrata era confortevole e spazioso (Hruska lo volle adeguato a passeggeri della sua altezza che era di 185 cm!) con il volante regolabile mentre il capiente vano bagagli posteriore di 400 dmc fu ottenuto montando le cerniere del cofano in bella vista all’esterno della carrozzeria, scelta audace e in controtendenza. La progettazione della meccanica e della scocca fu invece affidata ad un team capeggiato dall’ingegner Domenico Chirico e anche da questo punto di vista l’Alfasud rappresentò una vera e propria rivoluzione: per l’Alfa Romeo era la prima volta di una vettura a trazione anteriore e per il propulsore venne scelto un nuovo quattro cilindri contrapposti (boxer) di 1.200 cc. raffreddato ad acqua che garantiva un minore ingombro in altezza e lunghezza, un baricentro più basso e quindi un frontale aerodinamicamente più valido anche in funzione dei consumi (ancora non lo sapeva nessuno ma stava per arrivare la crisi petrolifera del 1973). I suoi 63 CV accoppiati a un cambio a quattro marce consentivano alla vettura di toccare i 155 km/h, collocandola fra le più veloci “milledue” dell’epoca, immediatamente sotto al segmento della Giulia. La meccanica dell’Alfasud prevedeva inoltre diverse finezze come freni a disco anteriori “in board” per diminuire le masse sospese, la frizione con comando idraulico già inaugurata dalla Giulia o la distribuzione ad alberi a camme in testa comandati da cinghie dentate. I collaudi dei prototipi terminarono a metà del 1971, in novembre l’Alfasud venne presentata ufficialmente al Salone di Torino e l’anno successivo iniziò la commercializzazione della vettura che inizialmente veniva venduta a 1.420.000 Lire (circa 13.800 euro).
“Tutta sua zia Giulia”, recitava la pubblicità mettendo l’accento sul DNA alfista ma pur essendo un concentrato di novità di cui andare giustamente orgogliosi, frutto di una progettualità di alto livello, il successo del prodotto Alfasud fu inizialmente minato da carenze produttive dovute all’utilizzo di acciai scadenti, dalla scarsa qualità dei componenti e degli assemblaggi, dall’insufficiente addestramento delle maestranze locali e soprattutto dalla ruggine che a causa di processi elettrolitici inadeguati aggrediva velocemente e irrimediabilmente le scocche. Una serie di guai di gioventù che macchiarono quasi indelebilmente il nome Alfasud tanto da far sostenere ai detrattori che le vetture prodotte a Pomigliano d’Arco fossero Alfa Romeo “minori”. L’incubo della ruggine sarà risolto solo nel 1977 con la seconda serie denominata Alfasud Super per la quale vennero utilizzata lamiere zincate e acciaio inossidabile oltre ad iniezioni di schiuma poliuretanica nelle parti scatolate.
Il modello poteva comunque vantare una grande tenuta di strada, grande facilità di guida e una notevole velocità di base tanto che riuscì a raddoppiare i volumi produttivi dell’azienda facendola uscire dalla dimensione quasi di nicchia, diventando l’Alfa Romeo più venduta di sempre grazie alla quale migliaia di europei poterono finalmente permettersi una vettura con il marchio del Biscione visconteo (pur senza la scritta Milano) sul muso.
L’ Alfasud ebbe una continua evoluzione che vide modelli a due porte (la TI) e tre porte con portellone posteriore, una versione famigliare piuttosto bruttina e versioni con motori potenziati fino a 1500 cc. tra cui spicca l’Alfasud Sprint, sempre disegnata da Giugiaro, che resta una delle più belle coupé degli anni Settanta. La storia produttiva dell’Alfasud durò fino al 1983 quando venne sostituita dalla 33.
Ricordiamo infine che anche questa vettura può vantare un film nel quale ha un ruolo diciamo così da protagonista. Ci riferiamo a Bianco, Rosso e Verdone del 1981e in particolare all’episodio nel quale l’emigrato Pasquale Amitrano (Carlo Verdone) compie un avventuroso viaggio per votare da Monaco di Baviera a Matera con la sua Alfasud rossa completa di tutti gli accessori “tamarri” dell’epoca come le foderine in finto pelo e la lunghissima antenna radio. Diventata subito oggetto di culto per lo sterminato popolo dei fan dell’attore romano ha in qualche modo risarcito la fama negativa che questo modello molto importante nella storia dell’automobilismo italiano continua a portarsi addosso e che invece, come abbiamo visto, proprio non merita.