Costruita all’insegna del risparmio ma per molti versi rivoluzionaria, questa piccola grande utilitaria fu la risposta vincente della Renault alla eterna rivale Citroën.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta alla Renault si affrontò il problema di offrire al pubblico una automobile in grado di contrastare lo straordinario successo della Citroën 2CV che, nonostante fosse apparsa nel lontano 1948, non aveva rivali in Francia per semplicità costruttiva, versatilità e affidabilità. La Casa di Billancourt non aveva in listino nessun modello che potesse rivaleggiare con quello della grande rivale di Quai de Javel se non la piccola 4CV del 1946, auto che pure aveva avuto un ruolo importante nella motorizzazione di massa francese del secondo dopoguerra ma risentiva i limiti di un’impostazione ormai superata. Per questo il presidente della Renault Pierre Dreyfus dettò personalmente l’impegnativo chaier des charges del nuovo progetto. Doveva essere un’auto essenziale ma innovativa, robusta, economica nei consumi ma con una significativa differenza nell’impostazione rispetto alla 2CV: quindi non un veicolo pensato prevalentemente per i contadini ma un’auto universale, adatta sia alle grandi periferie in espansione sia alle famiglie di operai e impiegati, ideale per gli spostamenti quotidiani come per viaggiare in modo economico nel fine settimana. E naturalmente doveva essere un pratico veicolo da lavoro per commercianti e artigiani. Insomma, come la definì lo stesso Pierre Dreyfus, “un’auto in blue jeans”, cioè robusta, pratica, comoda e adatta a tutti gli utilizzi, proprio come il famoso pantalone. Un dettaglio simpatico: nelle comunicazioni aziendali e durante la fase di sperimentazione, la nuova vettura venne chiamata con il grazioso nome in codice di Marie Chantal per evitare fughe di notizie verso la concorrenza e la stampa specializzata, sempre alla ricerca di scoop e anticipazioni. Per limitare i costi di produzione il team capeggiato da Fernand Picard ripiegò su un semplice telaio a pianale con la scocca imbullonata invece che la più moderna scocca portante. Inoltre, visto che la vettura doveva essere più confortevole delle altre Renault in listino, le sospensioni furono progettate a ruote indipendenti e barre di torsione e non con i tradizionali ammortizzatori idraulici. Questa caratteristica, oltre all’altezza da terra, consentiva alla vettura di marciare agevolmente anche sullo sterrato. Per quanto riguarda il motore si ricorse al collaudato quattro cilindri in linea da 747 cc. da 26 CV raffreddato ad acqua della 4CV ma, per ottenere il massimo dello spazio disponibile a bordo, per la prima volta in Renault si passò dal “tutto dietro” al “tutto avanti” trazione compresa. Dalla 4CV derivava anche il cambio a tre marce (passeranno a quattro solo dal 1977) posto in blocco con il differenziale davanti al motore per cui la leva del cambio risultava lunghissima e terminava con la caratteristica forma a “manico di ombrello”. Ovviamente freni a tamburo davanti e dietro. Per quanto riguarda l’aspetto esteriore lo stilista Robert Barthaud disegnò una carrozzeria senza spigoli e angoli morti che si può definire un misto fra berlina e giardinetta, una forma inconfondibile che rimase sostanzialmente la stessa per tutta la vita produttiva della vettura. Ottima l’accessibilità agli organi meccanici visto che il cofano si sollevava integralmente portandosi dietro anche la calandra e lasciando in bella vista il vano motore. Nonostante fosse lunga appena 3.61 metri il sapiente utilizzo di volumi garantiva quattro posti comodi e un bagagliaio di 480 litri che diventavano ben 1.450 abbattendo la panchetta posteriore. La prima R4 (la sigla faceva riferimento ai cavalli fiscali) restava comunque all’insegna dell’economia assoluta: aveva un tetto apribile in tela ma tutte le superfici vetrate erano piatte per contenere i costi di produzione e mancava il terzo finestrino laterale, aveva calandra, maniglie porta e paraurti a tubo verniciati e non cromati, le ruote prive di coprimozzo, mancavano i rivestimenti interni delle portiere, l’aletta parasole del passeggero e i copri pedale in gomma della pedaliera, l’imbottitura dei sedili a panchetta era quasi inesistente e i vetri posteriori erano fissi. L’unico colore previsto per il momento era un grigio-verde che faceva molto veicolo militare. Ma non mancavano gli aspetti innovativi perché la R4 era la prima vettura di grande serie col circuito di raffreddamento sigillato, non aveva punti di ingrassaggio e presentava, novità per l’epoca, un ampio portellone posteriore quasi perpendicolare dalla soglia di carico piatta e bassa. A partire dal gennaio 1959 una équipe di prototipi percorse circa due milioni di chilometri affrontando tutti i tipi di terreno e le temperature più estreme per verificare l’affidabilità dei propulsori. La R4 venne presentata il 4 ottobre 1961 al Salone di Parigi e proposta in tre versioni: l’essenziale R3 dotata di un bicilindrico di 603 cc. raffreddato ad aria da 22,5 CV che sparirà dal mercato quasi subito, la R4 base e la R4 L (Luxe) dotata del terzo finestrino laterale e di un allestimento un po’ più ricco. Fu subito la più gradita al pubblico e costava 4.980 franchi (circa 8.550 euro), più o meno quanto la sua rivale 2CV. Questa storica Renault rimase in produzione fino al 1993 giovandosi di aumenti di cilindrata, motori diversi e continui miglioramenti soprattutto negli interni ma rimanendo sostanzialmente fedele alla sua immagine iniziale. Alla fine, ne saranno prodotte più di otto milioni, comprese le 40.000 costruite su licenza dall’Alfa Romeo a Pomigliano d’Arco che però montavano il motore di 845 cc. della Renault Dauphine.
In conclusione non possiamo non ricordare una R4 tristemente legata alla nostra storia recente: quella rossa targata Roma N57686 nella quale il 9 maggio 1978 in via Caetani venne fatto ritrovare dalle Brigate Rosse il corpo di Aldo Moro.
Diventata suo malgrado un simbolo degli “anni di piombo”, l’auto apparteneva ad un imprenditore edile marchigiano a cui era stata rubata due mesi prima. Tornato in possesso della vettura un paio d’anni dopo il proprietario non volle disfarsene e anzi la conservò con rispetto nonostante fosse stata praticamente sventrata da artificieri e tecnici della scientifica. Nel 2013 ne fece dono al Museo Storico delle auto della Polizia di Stato a Roma dove oggi, dopo il restauro, si trova esposta. Per ironia della sorte proprio uno dei suoi maggiori pregi, il grande bagagliaio posteriore, aveva fatto scegliere ai brigatisti una R4 per mettere in atto la macabra scenografia del più grave delitto politico dell’Italia repubblicana.