Certo, all’immenso Lev Tolstoj sarebbe stato molto difficile estraniarsi dall’incendio che gli divampava intorno, avendo egli combattuto, stivali nel fango, nella guerra di Crimea per lo zar Nicola I. Da quell’esperienza la sua penna geniale generò i “Racconti di Sebastopoli”. Poi venne “Guerra e Pace”, il capolavoro. Un pilastro della letteratura universale che basterebbe da solo oggi – magari in pubbliche sessioni di lettura nelle scuole e sul territorio – a disinfestare l’aria imbevuta d’odio che avvelena intere società, complice la scelleratezza della politica.
E fornirebbe forse utili anticorpi per rieducare alla civiltà del rispetto tante menti malate e intossicate di violenza. Ma non occorre aver imbracciato obbligatoriamente un fucile per riuscire a documentare e raccontare, con sicura efficacia narrativa, una guerra mai veramente finita seguita da una pace mai seriamente decollata come si è verificato più di recente nei Balcani. Soprattutto se, con esemplare perseveranza, si è dedicata buona parte della propria vita a restituire alle vittime la loro dignità di esseri umani calpestata in nome di presunti e superiori ragioni di Stato, o di un primatismo nazionale senza compromessi. Oltre al necessario talento, è richiesta però una speciale “chiamata” dal profondo dell’anima. La passione per un giornalismo libero e coraggioso, esercitato con l’utilizzo dell’unica vera arma ammessa dall’etica: la cultura al servizio della verità storica. Che non è solita fare sconti a nessuno, perché smaschera governi, classi dirigenti, mandanti ed esecutori, protagonisti e complici, tutti responsabili a vario titolo del sacrificio di intere popolazioni civili allo scopo di conquistare e ripulire terre, modificare confini, ridefinire rapporti di forza, ruoli strategici, redistribuire risorse economiche. Banalmente: anche per arricchirsi in modo illecito.
In questa speciale categoria di difensori del sentimento universale di umanità, rifugio dei più ostinati idealisti, milita da trent’anni un uomo dalla penna acuminata e instancabile come Luca Leone, che della storia della martoriata Bosnia-Erzegovina post jugoslava è uno dei massimi conoscitori e divulgatori. Al punto di creare, affiancandola e armonizzandola col suo fecondo lavoro di giornalista e scrittore, una piccola casa editrice, la dinamica “Infinito edizioni”, distintasi fin dagli esordi con un libro fondamentale come “Srebrenica. I giorni della vergogna” (2005). Considerato il primo e più documentato rapporto sul genocidio di diecimila musulmani bosniaci consumato nell’estate del 1995, sotto gli occhi impotenti e complici dei caschi blu olandesi dell’Onu e nella disarmante inerzia dell’Europa nel cui seno la mattanza si compiva. Da allora, Leone ha offerto ai lettori italiani molti altri e pregevoli contributi. Citiamo soltanto, sempre per “Infinito”, i saggi e reportage “I bastardi di Sarajevo” (2014), “Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio” (2017) e – con Silvio Ziliotto – “Dayton, 1995” (2020).
Oggi che l’infezione della guerra, come un cancro in dormiveglia, è tornata a corrodere dalle trincee dell’Ucraina una mal amalgamata (e sempre meno amata) Unione Europea, immemore della lezione balcanica, è come se anche l’ultima speranza fosse collassata di colpo. Che ne sarà della Bosnia-Erzegovina imbalsamata (daytonizzata?) in un’innaturale spartizione fra entità croato-musulmana e entità serba, che ha premiato la logica della sopraffazione a spese della giustizia, e schiacciato ogni prospettiva di sviluppo nell’ abbraccio mortale fra nazionalismi e corruzione, sete di vendetta e lavoro sporco incompiuto? Luca Leone ha scelto una strada espressiva nuova per lui, la poesia – poesia degli umori e dell’istinto incurante dei canoni formali – per dire tutto ma proprio tutto quello che sente e che pensa delle troppe attese disilluse, delle promesse ripetute e tradite, delle speranze tramontate di un Paese ancora ricoverato nel pronto soccorso della politica internazionale. La silloge “Chiacchiere tra cadaveri etnicamente diversi” (Infinito edizioni, 2023, pagg. 118, € 14,00) può essere definita in tanti modi. Una spontanea resorgiva di emozioni e reazioni traboccata da un’anima in pena – la sua – davanti a un immobilismo insopportabile. Un invito al risveglio delle coscienze propedeutico all’azione riparatrice. Una denuncia rabbiosa, sdegnata, commossa, che affida la moltiplicazione della propria eco al potente canyon della letteratura, che trascende, comprende, interpreta, aiuta a dare un senso ai fatti della vita. La poetica dello scrittore-editore scorre guidata da un evidente furore creativo.
“È sfiorito un mondo/nei giardini della Terra/un luogo disperso/in un Oriente di dolore/dove il buio, gelido/tutto avvolge e annega”, esordisce nel sonetto “Che le bocche da fuoco preghino per noi”. L’atmosfera dei versi è cupa, dolente come un canto risalito dalle viscere di quella terra contesa e vilipesa. “Sono artista dell’estremo/esteta dell’orrore e del piacere/droga alcol soldi impenitenza/lussuria certa se mi vuoi imitare/E mi eccito”, delira in “Lo snaiper”, il cecchino annoiato in attesa della prossima vittima. La parola viene data ora agli oppressori ora agli oppressi. Luca Leone, aggrappandosi alla pietas che sola riesce a mitigare una lettura altrimenti dura e incalzante come un martello, si immerge in “Iddio latita stasera (a Bratunac)”, nei panni laceri di chi sta disperatamente strisciando sul terreno impregnato di morte lungo i sentieri boschivi che lo condurranno lontano da Srebrenica, per scappare verso la salvezza. È uno dei pochi maschi sopravvissuti miracolosamente al genocidio ordinato dal generale serbo-bosniaco Ratko Mladić: “E io giaccio/esausto/Salvo/Iddio c’era oggi/Forse, allora/a vacillare/una volta ancora/era la memoria/strappata e labile/della mia/defunta fede”.
La provocazione, per quanto ingentilita dalla musicalità del ritmo, è uno schiaffo netto che scuote i nostri sguardi a volte compassionevoli ma più di frequente distratti su questo angolo di mondo maledetto dalla Storia. Nello stupendo – tragicamente stupendo – dialogo immaginifico che si svolge nel silenzio dell’Ade bosniaco (“Chiacchiere tra cadaveri etnicamente diversi”), uno dei due odiati conterranei a un certo punto osserva: “Alla fine/co-defunto anonimo/dimmi se su questo mi sei affine:/l’unica cosa/che davvero appesta/quest’aria chiara/elettrica e antica/è il tanfo/di decomposizione/dei nostri cadaveri/identici ma/qualcuno narra/etnicamente dissimili”, distinguibili fra loro “non per la razza/ma unicamente/lo vedi bene/per i fori d’entrata/dei piombi infuocati/che odiandoci/ci siamo scambiati”.
Opportuna e illuminante la domanda che pone lo scrittore e traduttore Silvio Ziliotto nell’introduzione al libro: “Quale speranza vi è se i nodi che condussero a un conflitto tanto straziante non furono e non sono metabolizzati e risolti in un comune dolore e una necessaria pacificazione, grazie ai quali vittima e carnefice possano guardarsi e riconoscersi come uniti da un medesimo Fato, per trovare, finalmente, la pace?”. Sta qui, tutta qui, l’essenza di un passato che in Bosnia-Erzegovina non vuole ancora passare. La chiave per far entrare aria fresca nel presente. La strada per fermare l’emorragia continua dei giovani verso l’estero, che compromette ogni serio tentativo di rinascita. Il filo spinato che va reciso per sognare un futuro finalmente – e non per forza etnicamente – diverso.
Luca Leone sarà ospite domani sera, giovedì 14 novembre, della rassegna “Geostorie 2024”, con inizio alle 20.45.
Intervistato da Valerio Di Donato, la conversazione prenderà spunto dal suo ultimo libro “Chiacchiere tra cadaveri etnicamente diversi” (Infinito Edizioni, 2023).
Treviso 13 11 2024 – Grazie di questo contributo…