L’impulso così ricorrente, spontaneo, verso la fraternità sarà biologico o culturale, o ambedue, visto che è antico e culturalmente promosso ben prima della Rivoluzione francese, della Chiesa, della costituzione italiana? Ricordo la sollecitazione anche di Kropotkin, con la proposta del “Il mutuo appoggio” edito nel 1902, e, recentissima, l’enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti”.
Alcuni antropologi attribuiscono la nascita della comunità in epoca preistorica, con le donne alle prese con parti ravvicinati e le difficoltà di accudimento della prole, accentuate dalle condizioni di vita immaginabili.
Da qui l’originarsi del soccorso delle anziane, in menopausa, e delle giovanissime, impuberi… e della prima comunità, espressione della condivisione di un munus, parola latina che significa dono, compito, servizio che circola tra le persone, gratuitamente.
Identifica una risorsa valida solo se circola; se, nella fattispecie, le tre generazioni si succedono nel servire: le giovani apprendono l’accudimento, le adulte offrono continuità di vita alla tribù, le anziane mettono a servizio l’esperienza.
Perciò possiamo definire la comunità come un insieme di persone-cum-munus, che condividono doni, compiti, servizi nell’interesse della sopravvivenza e del buon vivere generale e personale.
Non so quanto l’ipotesi degli antropologi corrisponda al vero e certo non è dimostrabile, però la trovo suggestiva, verosimile, richiama la pratica della fraternità.
La questione è tanto antica che il primo racconto – romanzo noto, l’epopea di Gilgamesh – nella prima versione conosciuta risale a 19 secoli a. c. – è centrata sul tema dell’amicizia, della fraternità, della ricerca dell’immortalità, attraverso una serie di esperienze che consentono di raggiungere la saggezza (questa è una sintesi estrema!).
Il racconto parrebbe affondare le sue radici in storie di cinquemila anni fa, così suggerisce che natura e cultura si embrichino: ci riconosciamo come esseri troppo fragili per vivere da soli e l’altro, con il quale spesso si confligge, ci è in realtà necessario.
È proprio il sentimento di questa necessità che sostiene la trama del racconto, che forse arriva fino a noi con il detto popolare, aperto a letture polimorfe, anche ambigue,“tienimi che ti tengo”, che richiama gli acrobati che si sostengono l’un l’altro per non cadere.
Ma allora perché la fraternità non si è universalizzata?
Edgar Morin distingue due fraternità: una aperta, l’altra chiusa in un noi che esclude gli stranieri: è un limite ed è una falla aperta al regresso della fraternità, fino al suo azzerarsi.
Lo scrive in “La fraternità, perché?” Vorrei che rispondessimo insieme alla sua domanda. Avete suggerimenti?