Recentemente mi sono imbattuto in un post pubblicato da un noto consigliere comunale di maggioranza, un messaggio che recitava semplicemente: “Dio, Patria e Famiglia.” Mi sono fermato a riflettere, perché queste parole — apparentemente inoffensive, quasi scolpite in una tradizione polverosa — mi hanno evocato un senso di inquietudine.

Sono un giovane cittadino italiano, nato e cresciuto in un ambiente vivacemente multiculturale. Vivo in un mondo che considero una rete di intrecci e possibilità, dove identità diverse convivono e si arricchiscono a vicenda.

Ho avuto la fortuna nella mia vita di conoscere persone straordinarie, ognuna appartenente ad una cultura o religione differente, ma ugualmente dotate di profonda saggezza.

“Dio, Patria e Famiglia”: di fronte a queste parole, mi chiedo non solo che cosa significhino, ma soprattutto quale messaggio nascondano.

Hannah Arendt, nei suoi studi sulla banalità del male, ci ha insegnato a diffidare delle formule troppo semplici, di quelle parole che appiattiscono il pensiero e riducono la complessità del mondo a slogan monolitici. “Dio, Patria e Famiglia” ha il sapore amaro di quelle barriere che la storia ci ha insegnato a temere: un richiamo a “Gott mit Uns”, quel “Dio è con noi” che marciava al passo delle truppe naziste e si alzava come un muro invalicabile.

Una cosa l’ho capita: spesso chi pronuncia queste parole, chi le usa come bandiera politica per raccattare qualche voto, non ne conosce minimamente il significato. Chi si erge a difensore di questi valori spesso naviga in un mare sconfinato di ignoranza: basterebbe semplicemente studiare un po’ di storia per comprendere che dietro a questo slogan molti uomini si macchiarono dei più terribili crimini della storia.

Cosa significa Dio, se non la libertà di cercarlo secondo la propria fede o anche di non cercarlo affatto? Cosa rappresenta la Patria, se non un luogo che dovrebbe abbracciare chiunque vi trovi rifugio? E quale Famiglia possiamo celebrare, se non quella che riconosce ogni forma d’amore e ogni legame scelto con dignità?

Non voglio vivere in un mondo fatto di confini e steccati, di appartenenze esclusive che separano anziché unire. Voglio un mondo in cui le parole sono un ponte che collega e non divide, in cui le differenze siano vissute come una ricchezza e non come una minaccia.

Forse è questa la sfida del nostro tempo: liberarci dagli slogan che hanno già prodotto troppi danni nella storia, e costruire un linguaggio che guardi avanti, non indietro. Perché la vera libertà non si erge mai su un muro, ma si spalanca come una porta.

Basterebbe un po’ di cultura, ma soprattutto un po’ di rispetto.

Tommaso Syrtariotis
Studente di giurisprudenza presso UniPd Membro del Gruppo giovani Marcon e Giovane Democratico

2 COMMENTS

  1. Grazie, Tommaso. Ho inviato queste tue considerazioni ai miei figli e ad altre persone che stimo. Cerca di vivere sereno Afra

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