[di ritorno da SAN PIETROBURGO]
Sono stato una settimana all’Ermitage, a San Pietroburgo, in Russia. La scorsa settimana. Ci sono andato per mia scelta. Lo ritenevo opportuno, forse addirittura necessario. Spero che da ciò che scrivo si capisca il perché.
Lo avevo deciso quasi un anno fa. Dopo più di venti mesi di guerra tra Russia e Ucraina. Poi diverse ragioni mi avevano trattenuto a Venezia: qualche titubanza mia, il sentore che vi potesse essere qualche strumentalizzazione, il viaggio che mutava completamente rispetto ai soliti itinerari proprio per la guerra e le sanzioni. Ma una serie di contatti e di rapporti mi avevano infine convinto che non potevo più rimandare. Ed è stato proprio così.
In quattro giorni ho incontrato e ragionato con più di trenta curatori scientifici, ho assistito all’inaugurazione di due mostre, ho visitato i depositi potendo osservare il lavoro di restauro di un’opera italiana famosissima ed ho potuto visitare un nuovo percorso interno da poco aperto. Ed ho potuto soprattutto parlare con tutti senza controlli, senza limiti, senza testimoni indiscreti.
Ma andiamo con ordine. Sono dal 2007 Segretario generale di Ermitage Italia. Una struttura che ha operato per molti anni a Ferrara quando era promossa dalla Regione Emilia Romagna, dalla Provincia e dal Comune di quella bella città. Poi ci si spostò a Venezia – alla fine della presenza di Giorgio Orsoni come Sindaco – e fummo confermati nel lavoro dal nuovo primo cittadino successivamente eletto Luigi Brugnaro.
Ermitage Italia ha avuto nei suoi compiti fondamentali alcuni filoni di lavoro ben chiari: dare la possibilità a ricercatori italiani, russi ed europei di lavorare in Italia e in Russia sulle materie culturali che più hanno legato i nostri Paesi; contribuire alla catalogazione e all’edizione di diversi volumi che illustravano le opere italiane presenti al Museo Ermitage; organizzare convegni e seminari scientifici che fossero capaci di leggere la storia di relazioni e incroci di attività culturali tra Russia e Italia ed infine promuovere attività formative comuni come mostre ed esposizioni frutto della ricerca e dello studio fatto insieme.
Abbiamo avuto un contributo economico in Italia da una delle “società” che sono espressione del Ministero della Cultura e una serie di finanziamenti da parte di sponsor privati italiani che evidentemente tenevano alla visibilità e ad i rapporti in Russia. Non abbiamo mai chiesto o voluto denari o interventi economici a nostro favore da entità pubbliche o private russe. E questo stesso viaggio è stato fatto solo a mie spese.
Nel 2007 e nel 2013 Ermitage Italia fu riconosciuta e “sancita” come scelta di collaborazione tra i governi di Italia e Russia nei “vertici” di Bari prima è di Trieste poi. Presidenti del Consiglio in Italia erano Prodi e Letta. Per la Russia vi era come Presidente Putin. I vertici vedevano naturalmente la presenza delle massime autorità degli apparati statali.
La struttura del Museo Ermitage era ed è complessa. Un direttore generale, diversi vicedirettori, molti dipartimenti. Per un totale di più di seicento tra curatori scientifici e restauratori. Il personale complessivo supera largamente le 3500 unità. I numeri del Museo sono imponenti: quattordici laboratori di restauro, 3.500.000 opere, trenta chilometri di percorso museale, immensi depositi recentemente costruiti a pochi chilometri dalla sede storica del Museo sulla Neva, 4.500.000 visitatori prima della pandemia e della guerra. Poi, per quanto ci riguarda, basti ricordare che le opere italiane, senza contare le monete, superano i diecimila “pezzi”. Forse il più grande Museo “italiano” all’estero.
I rapporti nascevano da lontano. Da alcune collaborazioni che vedevano protagonista la “Pittura Veneta” di cui l’Ermitage possiede più di settecento importantissime opere. E siamo in questo caso a Udine con alcune mostre sulla famiglia Tiepolo e sul Seicento veneto.
Tutto ciò accade nella parte finale degli anni del Novecento. Vale la pena ricordare come sia nata questa opportunità per me e per la società che avevo fondato e allora dirigevo: Villaggio Globale International.
Vi era in Italia una persona molto legata al Museo Ermitage, quasi una sorta di punto di riferimento del grande Museo Russo. Si trattava di Leonardo Mondadori munifico sponsor delle grandi mostre sugli impressionisti provenienti da Pietroburgo e che furono realizzate a Milano e Roma.
Quando Leonardo mancò per una drammatica malattia venni chiamato dal direttore del Museo Michail Piotrovskij tramite la curatrice della Pittura Veneta, Irina Artemieva.
Piotrovskij mi chiese esplicitamente di lavorare con lui, con Artemieva e con le strutture del museo. Ma raccontò anche un sogno che condivideva con Leonardo Mondadori: aprire Ermitage Italia, un Centro di studi e ricerche. Da lì un lavoro “matto” e per certi versi incredibile ci ha portato a quello che è stato poi realizzato.
E tutto partì dall’indagine per capire dove si potesse realmente aprire una sede italiana dell’Ermitage. Essa coinvolse le Amministrazioni delle città di Torino, Verona, Mantova, Ferrara e Venezia per definire la scelta finale.
Non potevo non fare queste premesse che – pur lunghe – sono indispensabili per capire la realtà di oggi.
Sta di fatto che il lavoro cominciò appunto negli anni Novanta del Novecento e portò a decine e decine di mostre, di incontri, di seminari e di progetti realizzati in Russia e in Italia.
Il Museo Ermitage, che ho già descritto in qualche suo numero, ha una straordinaria capacità magnetica per me e, devo dirlo, anche per tutti coloro che con me hanno lavorato. Ciò che colpisce è la ricchezza di generazioni, di provenienze, di linguaggi che si ritrovano tra i curatori e i lavoratori di quella enorme struttura culturale. Essi appartengono a vari dipartimenti di cui uno dei più importanti è quello delle “Arti Occidentali”. E i dibattiti che spesso facciamo in Italia li ho ritrovati pari pari in Russia.
La grande attenzione era per i prestiti e per i rischi che corrono le opere, per i restauri che non possono mai modificare o estraniarsi dalle volontà dell’autore, per il desiderio di riuscire a promuovere non solo manifestazioni di successo spettacolare ma momenti di ricerca e di indagine che rendessero espliciti il lavoro e la fatica dei curatori.
Su questi e altri temi non posso dire che le sensibilità russe siano state meno forti e convinte di quelle italiane. Anzi. L’evoluzione del pensiero scientifico è corsa su strade comuni. E il dibattito sul senso delle mostre, le opportunità dei prestiti, la prudenza nelle attribuzioni è stato sempre un terreno condiviso. E questo “terreno comune” ha aiutato gli uni e gli altri consentendo di scoprire nuove e diverse opportunità.
Come sempre accade vi era, anche in Russia, chi entusiasta “spingeva il carro” e chi scettico guardava il sudore altrui. Ma una cosa è certa: negli anni vinse il desiderio di collaborazione, non la resistenza passiva che pure vi fu. Ciò modificò molto il mio ruolo. Da semplice rappresentante italiano divenni di fatto e pian piano interlocutore diretto e presente nello stesso dibattito russo. Con la fatica della mia ignoranza linguistica e con l’aiuto di una capacità interpretativa di gesti, visi e parole che aveva origine nel mio passato politico e culturale.
Tutto ciò si tradusse in “confidenza e fiducia”. Che avevano una legge fondamentale: far coincidere l’interesse russo con quello italiano ed in sostanza riunificarli in una prospettiva di scoperta e riflessione scientifico-culturale.
La pandemia ha sospeso tutto ciò e la guerra lo ha interrotto. Appena avvenne l’invasione dell’Ucraina feci un comunicato di Ermitage Italia. Esso diceva due cose. Da una parte, condannando l’invasione, si interrompevano i rapporti tra Ermitage Italia e il Museo Ermitage come “Museo di Stato”. Dall’altra si diceva in maniera chiara e forte che sarebbero invece continuate tutte le relazioni con i curatori scientifici del Museo.
Ho sempre sostenuto infatti che va mantenuto un filo di speranza tra i “Mondi” anche quando si avversano. E questo “filo” è e può essere la culturaVincere gli estremismi che si sono manifestati in questi anni non è stato facile. Strumentalizzazioni di bassa lega che sono state condotte da alcune parti spesso in maniera indegna accusando l’uno o l’altro di subalternità e correità con i governanti russi. Ma questo vento non ha portato conseguenze se non la tristezza per chi lo ha soffiato.
Ecco perché non potevo far finta di nulla di fronte alle domande, agli sguardi, alle parole di chi aveva, in Russia e in Italia, per tanto tempo impegnato la sua fatica, il suo lavoro e le sue capacità di ricerca a costruire questa strada di relazioni e di confronto che si chiamava e si chiama Ermitage Italia.
Da qui è nato il mio viaggio. Da qui il mio interesse a capire che spazi esistessero per collaborare, che strade fossero percorribili. Ma avevo anche domande più profonde. Mi chiedevo infatti come sarebbero state le relazioni, i rapporti umani, le attenzioni che per tanti anni avevano contraddistinto un modo di essere dei nostri rapporti.
Cercherò di dare alcune risposte, alcune valutazioni e soprattutto di trasmettere le sensazioni che ho provato nel mio viaggio e nei miei incontri. Ho visto persone diverse, giovani di trent’anni, curatori di media età ed anziani protagonisti della vita del museo. Non dobbiamo infatti dimenticarci che quando all’Ermitage si va in pensione non si abbandona il lavoro o il ruolo. Si continua infatti a prestare la propria opera ed il proprio impegno di ricerca e si viene affiancati da giovani ricercatori come assistenti. E il genere dominante nella storia dell’arte, come in Italia, è quello femminile.
Negli incontri non ho mai posto ad alcuno il problema della guerra. Era sottinteso e presente come un convitato di pietra e quindi non andava ulteriormente evocato. E tutti erano contemporaneamente felici e dolenti. Felici di tornare a parlare e dolenti dei limiti oggettivi che il nostro discutere aveva.
All’Ermitage hanno continuato a lavorare con piena lena, questo ho capito. Certamente meno attenti agli aspetti presenti “fuori dal museo” e molto sensibili agli approfondimenti che erano conducibili “in casa”. Ma hanno scritto, documentato, restaurato, catalogato, ragionato continuando come prima il loro lavoro. Hanno rivolto le loro attenzioni alla Russia ed alle altre città di questa immensa nazione e ovviamente meno all’estero. E non sono certo solo innamorati dei Paesi Emergenti dei BRICS. Ovviamente capiscono che le polarizzazioni mutano e che l’Occidente con la guerra diviene “altro” e “distante”. Ma non vi rinunciano.
Qui viene la prima considerazione.
Si sentono profondamente europei e la situazione in cui si è giunti genera una lontananza inaccettabile e antistorica che vivono male (non solo loro). Gli scambi di opinione che ho avuto nella sala dei restauri guardando un’opera di Tiziano che era sottoposta ad esami e revisioni interpretative generava esplicitamente felicità. Che non era solo scientifica. Era comunanza di storia e di relazioni. E ho capito quindi e pienamente come il filo di seta che ancora ci lega vada difeso e irrobustito. Infatti sono queste relazioni che ci permettono e ci permetteranno di resistere alla durezza delle offese e della propaganda. Da ogni parte, la loro e la nostra.
Sono andato a Pietroburgo con le idee chiare. Riprendere pian piano e con prudenza a parlarsi. Sbaglia chi crede che ciò sia un “metodo” legato solo alle possibili polemiche italiane. È un modo di affrontare la realtà che riguarda tutti. Mi sono accorto infatti che davo per scontato il mio modo di pensare e di sentire, i miei sentimenti verso la guerra e la sua storia. Era invece un procedimento sbagliato. Perché anche chi avevo di fronte nutriva sentimenti diversi ma parimenti convinti. E due convincimenti solo gettati sul tavolo non portano a nulla.
La costruzione di un “percorso” è il problema e, me lo si permetta, l’unico modo che si può adottare per rispettarsi e costruire nuove premesse di comunità. Le idee erano semplici: avviare esperienze di presenza scientifica comune in alcuni progetti di ricerca che offrivano questa opportunità, partecipare a seminari che fossero in programmazione nei prossimi tempi sempre su materie attinenti la storia dell’arte ed infine favorire l’edizione di saggi e volumi che trattassero di argomenti di reciproco interesse. Ed essendo l’Ermitage, come ho già scritto, anche il più grande Museo di opere italiane all’estero c’è n’era, e ce n’è di certo, spazio e ragione. Il tutto – è una mia condiderazione – poggiando sui curatori scientifici, gli intellettuali come “possibili portatori di speranza”.
Le risposte sono state positive, convinte, affettuose. E non era scontato. E quindi gli sguardi ri-tornavano a essere di complicità. C’era esplicito quello che viene chiamato “un segno di pace”. Immediatamente partivano i racconti su questi anni di lontananza. Messaggio di condivisione ma non solo, anche di affetto. E ciò va ragionato e valutato positivamente perchè non si può pretendere che la durezza delle relazioni ufficiali non abbia avuto conseguenze.
Non si può pensare che basti un incontro a cambiare volti, pensieri, abitudini, convincimenti. Ma, e qui sta il centro del ragionamento, la strada si può aprire. La chiamo il “tarlo della pace” che non va mai svenduta o svilita. Va conquistata e la collaborazione culturale è un modo, un metodo ed un contenuto. Parlandoci abbiamo capito che ogni incontro, ogni parola poteva evitare gli “steccati” che sono così facili da costruire e così difficili da abbattere.
La mia vita all’Ermitage era quella di sempre. L’entrata negli uffici, il permesso da avere per poter girare per il Museo, le telefonate per costruire la scaletta degli incontri. E poi le lunghe camminate per raggiungere gli uffici di ciascuno. Camminate però meravigliose perché condotte tra le opere che, mentre le ammiri, ti rasserenano.
E si coglieva il piacere dei curatori nel raccontarti dei progressi della ricerca, dei nuovi allestimenti, delle meraviglie di un restauro, di una nuova ragazza o ragazzo che diveniva protagonista nel lavoro, nelle fatiche culturali. E alla fine giungeva il catalogo appena prodotto frutto dell’impegno e segno tangibile dei risultati.
Poi la pausa del pranzo in mensa. Con zuppe dai colori poco probabili che sovrastavano carne e pesce conditi con riso bianco e nero. Infine il caffè bevuto tra gli sguardi curiosi di chi non ti conosce ma capisce che non sei locale e di questi tempi quindi una rarità.
Al mattino all’Ermitage si arriva tutti verso le 11 che in Italia sono le 9. Perché il freddo si sente e non manca. Alla sera di esce sulle 18 ma molti rimangono a studiare, ad allenarsi con le prove in teatro e in biblioteca. Anch’io seguivo queste usanze andando poi a cena con le persone che più mi erano “vicine” per frequentazione e conoscenza.
Una volta al ristorante russo, una a quello indiano, una a quello georgiano e una a quello italiano, violando una regola che sempre mi son dato e cioè che al ristorante si va per scoprire e non per ri-conoscere gusti e aromi.
Tante macchine nelle strade con il consueto rumore invernale dei chiodi che picchiano sull’asfalto. Code e attese che ricordano la normalità e stupiscono chi pensa che anche qui si debba sentire la guerra. Una differenza c’è e me la fanno notare: la quantità di macchine cinesi di ogni tipo e cilindrata. Penso che i cinesi sono furbi ma non è una scoperta.
L’ultimo giorno prima di partire ho voluto andare in un centro commerciale e in un mercato. Tanta gente, apparentemente molti acquisti e molta merce esposta. Come prima della guerra. Però sorrido di me stesso. Sono nella seconda città della Russia, la più occidentale e bella. E vuoi che si noti la mancanza di qualcosa?
Hanno fatto di tutto per farmi star bene. E lo sono stato ma non vivevo in una “bolla” di felicità. Camminando per le strade senza neve ma bagnate da una caduta di minuscole palline di ghiaccio alternavo lo sguardo ai palazzi della Prospettiva Nevsky con i pensieri su una situazione internazionale drammatica. E mi chiedevo se avevo il diritto di aprire strade di relazione contemporaneamente alle tragedie di morte che ogni giorno accadevano. E a questa domanda ho sempre risposto di sì. Senza doppiezza e senza pregiudizi ma con la tranquillità di chi lo fa perché ci crede.
Si ringrazia la redazione della testata giornalistica “ytali.com” per averci concesso di riproporre l’articolo su “ILDIARIOonline”
Mi ci sono rivisto fra quelle opere mirabili.
Fra il Baltico e la Prospectiva Nevsky… Fra le albe e i tramonti di Battiato. Grazie.
Treviso 18 12 2024 – Un’esperienza ed una testimonianza assai coinvolgente. Grazie!