Continua con la seconda puntata il reportage dalla Bielorussia di Christian Eccher
In viaggio verso Pinsk
L’autobus per Pinsk parte puntuale dalla stazione delle autolinee di Grodno. Attraversa la grande pianura bielorussa e si lascia alle spalle i fieri boschi ai confini con la Polonia e la Lituania. Anton vive in un villaggio a pochi chilometri da Grodno e dal confine di Stato; sta andando a trovare un’anziana zia a Pinsk, nel sud del Paese, non lontano dall’Ucraina, nella regione geografica della Polesia. Anton racconta che il bosco vicino a casa sua è quasi completamente distrutto, ridotto a una latrina dai migranti che, ormai da anni, si aggirano come fantasmi ai bordi della Bielorussia. Attirati a Minsk dal Medio Oriente e dall’Africa con il miraggio di un viaggio semplice e comodo verso l’UE, vengono letteralmente sbattuti da una parte all’altra del confine come palline da tennis. Scavalcano il muro, entrano in Polonia o in Lituania e i poliziotti li rispediscono in Bielorussia, dove vengono malmenati e costretti a bivaccare nei boschi al confine. “Ogni tanto spariscono – mi dice Anton – la polizia li porta lì dove è necessario creare un caso internazionale. Se oggi i rapporti con la Lituania sono tranquilli, i migranti vengono trasferiti a Brest, la polizia fa un buco nella rete metallica e li manda in Polonia. I polacchi, cattivi come noi, li pestano e li rispediscono indietro. Poi è la volta dei nostri, che li bastonano e li ributtano dall’altra parte. E così si va avanti ormai da anni. Povera gente”. Anton racconta che il bosco vicino a casa sua sta lentamente scomparendo: “i migranti si devono riscaldare, usano il legno come combustibile e qualche volta si costruiscono casette e baracche con i tronchi dei pini. Per fortuna, finora non ci sono stati grossi problemi, ma veder tutti quei migranti vicino a casa, che bivaccano, fa un po’ impressione e, soprattutto le ragazze han paura a uscire di casa la sera. Qualche volta, entrano nelle “dace” dei bielorussi e dormono lì, finché non arrivano i padroni a cacciarli”.
Pinsk
Pinsk mi accoglie con la sua aria sonnolenta e tranquilla. Il corso principale è disposto parallelamente al fiume Pina, che proprio davanti al parco cittadino si getta nel Pripyat’. Nel parco ci sono prototipi di navi (la città è anche un porto) e l’immancabile monumento ai caduti della Seconda guerra mondiale, su cui alcune anziane signore depositano dei fiori. Il Corso è costeggiato da edifici antichi, che testimoniano il passato multietnico di questa città, che per anni è stata polacca e ha sempre avuto stretti contatti con l’Ucraina, almeno fino all’inizio dell’aggressione russa del 2022.
A poca distanza dal centro, in un quartiere anonimo, c’è anche la casa natale del più grande reporter di tutti i tempi, Ryszard Kapuściński.
Un edificio a due piani, in pietra, dall’intonaco giallo con un elegante balcone proprio sotto al tetto; le abitazioni limitrofe, invece, sono prevalentemente costruite in legno. Dietro alla casa, dove sorgono alcuni palazzi in stile socialista, si trovano un melo e un pero che danno frutti succosi e saporiti.
La mela di Kapuściński
In un caffè del centro siede Ksenia, una signora cinquantenne di Pinsk che lavora in una università di un’altra città. Parliamo dei problemi del Paese e della situazione che si è venuta a creare dopo le proteste. “In Bielorussia, siamo di fronte a una degradazione totale del sistema scolastico e degli studi universitari, soprattutto di quelli umanistici”, dice Ksenia. Le faccio notare che il problema non è solo bielorusso, ma globale. “Sì, ma qui si va oltre ogni possibile immaginazione. I nostri studenti si iscrivono sempre meno alle facoltà statali e chi può va a studiare all’estero, soprattutto gli studenti di Pinsk, dove ognuno ha parenti e conoscenze in Polonia. Le autorità pensano di invitare studenti dalla Russia per rimpiazzare i nostri. Per non parlare poi – continua Ksenia – del fatto che cominciano a mancare i quadri negli ospedali, nelle aziende pubbliche. Tutti scappati all’estero per sfuggire alle repressioni”. Ksenia racconta anche di suo nipote, un ingegnere, che ha dovuto sostenere 8 colloqui politici prima di ottenere il posto di lavoro. Molti altri suoi colleghi, quando vedono che alla professionalità viene preferita la fede politica, lasciano il Paese.
Le televisioni e i mezzi di comunicazione di massa sono tutti controllati dallo Stato, ogni giorno il Presidente Lukashenko si rivolge alla nazione, direttamente o indirettamente, mentre parla con i propri ministri, con gli operai delle fabbriche, con i contadini. Chiedo a Ksenia quanto sia reale il grande consenso che il Presidente dice di avere a livello nazionale. “Lukashenko ha la propria base elettorale nei gruppi più anziani, ma anche loro, dopo il 2020, hanno cominciato a dubitare: tutti hanno o hanno avuto un nipote in carcere o malmenato solo perché protestava. Devi immaginarti la società bielorussa come questa mela”. Ksenia prende in mano un frutto che ho raccolto poco fa davanti alla casa di Kapuściński. “Nel primo strato, quello più profondo, c’è la parte dura, quella che davvero sostiene Lukashenko. Piccola, ma centrale, con il seme dentro. Poi c’è la polpa, vale a dire il secondo strato, che è quello maggioritario: fingono di credere che vada tutto bene e fingono anche di credere nelle autorità che li governano. Poi c’è la buccia, vale a dire l’opposizione, che è sempre più sottile perché ridotta al silenzio o perché è dovuta emigrare, ma esiste ancora”.
L’altra faccia della medaglia
Saluto Ksenia e vado lungo il fiume Pina, dove un leggero vento scompiglia i capelli ai passanti. Nei pressi del parco, vicino al monumento ai caduti, mi aspetta M., un funzionario locale acceso sostenitore di Lukashenko. Gli chiedo che cosa pensi della situazione nel Paese e delle repressioni che continuano. “Senti, parliamoci chiaro: nel 2020, noi abbiamo dovuto difendere il Paese da un attacco esterno. Volevano far cadere Lukashenko per poi vendere le nostre aziende, sane e produttive, agli stranieri. Esattamente quello che è accaduto in Ucraina. Cosa stanno facendo adesso quegli stessi stranieri? Hanno messo gli ucraini contro i russi, con la promessa di far entrare il loro Paese nella Nato – continua M., con fare accorato – Lo sai che le terre fertili degli ucraini appartengono alle multinazionali straniere? Lo sai che i ricavi del grano da loro prodotto vanno a Londra, a New York e ai contadini ben poco rimane? Lukashenko ha garantito che la terra e le fabbriche bielorusse rimanessero nelle mani dei bielorussi. Una cosa che neanche Putin in Russia è riuscito a fare. Anche il vostro Vučić ha svenduto la Serbia alle potenze straniere. Noi no, siamo ancora padroni di ciò che è nostro. Vogliamo buttare tutto questo alle ortiche?”. M. mi saluta, ha un impegno improrogabile e mi deve lasciare. Mi stringe la mano e si avvia a piedi e in fretta verso il centro della città, mentre si stira la giacca con le mani e cammina goffamente a causa della sciatica che da giorni lo tormenta.
Io, invece, torno alla casa di Kapuściński, quasi cercassi ispirazione per scrivere questo reportage. Le mele continuano a cadere a terra; alcune rimangono intatte, altre si rompono, altre vengono spappolate dalle automobili di passaggio. Da una televisione al primo piano degli edifici socialisti antistanti alla casa del grande reporter, vedo Lukashenko che visita un’azienda agricola della regione di Brest, non lontano da qui. Parla con i contadini, accarezza i vitelli, si rivolge ai giornalisti, ma non riesco a sentie quello che dice.
Amo profondamente questo Paese e spero soltanto che la mela, una volta caduta, rimanga intera, intonsa, e non si rompa o venga schiacciata dalle auto in corsa.
il reportage di Christian Eccher dalla Bielorussia continua
con la pubblicazione del terzo articolo il 30/12/2024 dal titolo:
"Fra i fuoriusciti bielorussi in Lituania"
Il primo articolo è stato pubblicato il 19/12/2024:
"Fra UE e Bielorussia: La nuova cortina di ferro"