Le recenti esternazioni del quasi presidente Trump sul fatto che gli USA dovrebbero riprendersi il canale di Panama hanno riportato questa parte di mondo all’attenzione delle cronache. L’istmo centroamericano è stato fin dalla sua scoperta da parte degli europei un territorio di conquista grazie (o a causa) della sua particolare posizione geografica.
Tutto cominciò nel 1509 quando Alonzo de Ojeda e Diego de Nicuesa, ottennero da re Ferdinando di Spagna l’autorizzazione a fondare nei pressi dell’istmo di Panama una colonia che subito denominarono Castilla de Oro. La ricerca dell’oro era infatti l’ossessione che spingeva alla conquista di quelle lontane terre, senza badare minimamente alle popolazioni locali che ci vivevano da sempre e che venivano regolarmente massacrate o ridotte in schiavitù.
Ma le sorti di quella prima colonia volsero ben presto al peggio: di oro neanche l’ombra mentre la guarnigione spagnola veniva decimata dagli scontri con gli indigeni e dalla fame. In suo aiuto partì una nave da Hispaniola (l’odierna Haiti) carica di avventurieri che non vedevano l’ora di trovare il tanto decantato Eldorado dove si favoleggiava che i tetti e le strade fossero lastricati d’oro. Tra questi troviamo Vasco Núñez de Balboa, hidalgo partito per il Nuovo Mondo come semplice soldato, colono fallito ad Hispaniola e a tal punto copertosi di debiti da avere ottimi motivi per sparire nelle giungle panamensi.
Ben presto l’intraprendente giovanotto prese in mano la situazione cacciando il governatore inviato da Madrid che sfortunatamente perse la vita nel naufragio della sua nave mentre ritornava in Spagna. Núñez de Balboa era ora il vero padrone della colonia ma aveva disobbedito ad un ordine reale e sapeva che l’unica cosa che poteva giustificare questo delitto era l’invio di un sostanzioso carico d’oro destinato alle casse della Corona.
Ma dove trovarlo? La sorte gli venne in soccorso perché un cacicco (capo indigeno), costretto ad allearsi con gli Spagnoli per non venire annientato con tutta la sua tribù, gli fece questa stupefacente rivelazione: “Laggiù, dietro le montagne, si trova un immenso mare e le acque di tutti i fiumi che vi sfociano trasportano oro e ci vive un popolo i cui re mangiano e bevono in recipienti d’oro. Là troverete tutto il metallo giallo che desiderate. Il cammino è pericoloso ma il luogo non è lontano, si trova solo a poche giornate di viaggio”. Per Balboa era l’occasione che aspettava: avrebbe trovato montagne d’oro, ottenuto il perdono del re ma soprattutto sarebbe diventato colui che per primo avrebbe scoperto l’altro grande oceano, il Mar del Sur di cui avevano già parlato Colombo e Caboto senza però mai raggiungerlo. Il primo settembre 1513 dunque partì con 190 soldati armati di lance, spade archibugi e balestre e diversi temibili cani addestrati alla guerra.
Dopo 18 giorni di marcia forzata nella giungla con i vestiti ridotti a brandelli dalle spine, i piedi piagati, indeboliti dalle febbri, le guance gonfie per le punture di zanzara e decimati dagli attacchi degli indigeni, il 25 settembre 1513 Balboa e i 67 uomini ancora validi (gli altri erano stati lasciati lungo la strada) raggiunsero la base di una cresta montuosa oltre la quale si intravvedeva il cielo aperto: il grande oceano doveva essere là. Verso le dieci del mattino si portarono sotto l’ultima salita e qui Balboa impose ai suoi uomini di fermarsi: non intendeva condividere questo momento con nessuno, voleva essere lui il primo europeo a contemplare la visione dell’oceano sconosciuto. Raggiunta la cima rimase a lungo ad ammirare l’immensa distesa azzurra che si stendeva sotto di lui che pochi anni dopo Magellano avrebbe battezzato Oceano Pacifico. Poi ridiscese e lo scrivano Andreas de Valderrabano certificò con penna e calamaio che “l’illustre e pregiatissimo capitano Vasco Núñez de Balboa, governatore di Sua Altezza Reale, è stato il primo a vedere il mare e additarlo al suo seguito”.
Inizia così la storia del secolare rapporto tra questi luoghi e il mondo occidentale, una storia che avrà una accelerazione improvvisa alla fine dell’Ottocento quando i francesi, prima con Ferdinand de Lesseps (quello del canale di Suez) e poi Gustave Eiffel (quello della torre omonima) tenteranno senza successo di scavare un canale per mettere in comunicazione i due oceani ed evitare alle navi la lunga e pericolosa circumnavigazione dell’America Meridionale. Poi, agli inizi del Novecento, dopo aver forzatamente dichiarato Panama una repubblica indipendente (fino ad allora la zona dell’istmo era territorio colombiano), furono gli USA a realizzare con il proprio Genio militare la colossale opera di ingegneria tra il 1907 e il 1914, mantenendo il diritto permanente di difendere il canale da ogni minaccia fino al 1999.
L’interesse americano ha dunque origini lontane che vanno fatte risalire in qualche modo al famoso corollario Roosevelt del 1904 e al suo principio del “cortile di casa” che concepiva l’America centro-meridionale come un’area sulla quale gli Stati Uniti avevano il diritto indiscutibile di intervento a salvaguardia dei loro interessi e della loro sicurezza. Non a caso nel dicembre del 1989 intervennero militarmente proprio a Panama rovesciando in cinque giorni il corrotto dittatore Manuel Noriega (ex informatore della CIA) ormai pesantemente coinvolto con i signori della droga colombiani. In altri casi hanno lasciato fare ad altri il lavoro sporco, come ci insegna il Cile.
Ora “the Donald” nel pieno del suo trionfo politico e mediatico rilancia la questione sul controllo del canale lasciando sicuramente attoniti i panamensi che non hanno mai gradito troppo l’invadenza del grande vicino a stelle e strisce. Neanche fossero, che so, la Groenlandia.