Continua con la seconda puntata il reportage dall'Ucraina di Christian Eccher

A Odessa, fra i sommersi e (per ora) salvati nel buio della periferia.

Odessa è la città dei contrasti: una città in guerra alla ricerca di una normalità artificiale che rasenta la schizofrenia. I locali del centro sono aperti fino alle 23, un’ora prima del coprifuoco, e sono sempre pieni. Luci psichedeliche, musica a volume altissimo, all’interno ragazzi eleganti e donne dagli abiti attillati e sgargianti. La guerra sembra lontana da qui, anche se le sirene che annunciano l’allarme antiaereo riecheggiano diverse volte al giorno nei cortili interni, dove sonnecchiano i gatti e dove di solito regna il silenzio. La vera Odessa, però, è in periferia, nei palazzi che vengono spesso presi di mira dai missili russi.

Le zone popolari sono veri e propri alveari e vivere in uno di questi appartamenti è una vera tortura: all’interno, d’estate, le temperature sono elevatissime; i condizionatori e gli ascensori non funzionano a causa della mancanza cronica di elettricità. Quest’inverno, gli ambienti sono ben riscaldati: le riserve di gas e l’elettricità prodotta nelle centrali nucleari garantiscono, almeno nelle città, condizioni di vita decenti. L’estate scorsa, questi palazzoni erano delle vere e proprie gabbie infernali. Gli abitanti erano costretti a farsi anche 20 piani a piedi con le buste della spesa e i bottiglioni d’acqua potabile. I disabili sono praticamente murati in casa e possono solo aspettare la fine della guerra.

Settimo piano

Al settimo piano di uno di questi edifici, a pochi metri dal luogo in cui qualche mese fa è caduto un missile russo, c’è L., settantacinquenne paralitico. I parenti vivono a Chişinau, in Moldavia: “I miei figli e le loro mogli si fan molti problemi per me – dice L., mentre sbuccia una delle arance che gli ho portato in dono – ma sai com’è, il diavolo, visto dalla Moldavia, è molto più brutto di come appare realmente qui a Odessa”, dice ridendo L. “Viviamo, in qualche modo. Certo, soffro la solitudine. Spesso non c’è l’elettricità, non posso neanche guardare la tv o sentire la radio. I vicini mi aiutano come possono. I volontari della Croce Rossa venivano all’inizio, adesso non ce la fanno: quando i russi bombardano, sono impegnati nelle operazioni di salvataggio. Quando è tranquillo, hanno tantissimo da fare: ci sono gli sfollati e i profughi provenienti dal Donbass e da Kherson da assistere. I miei figli stanno cercando di trasferirmi a Chişinau, ma non è semplice organizzare il trasporto. Credo stiano più male loro di me: si sentono in colpa e hanno paura che mi succeda qualcosa. Il condominio in cui ci troviamo si spopola: chi va in guerra, chi scappa all’estero, chi se ne va in campagna. Alla fine rimarrò solo io. Quando sei a Odessa, vienimi a trovare che ci facciamo una chiacchierata”, mi dice L. Ci salutiamo, accosto dietro di me la porta di ingresso che nessuno chiuderà a chiave dato che L. non si può alzare. Sul pianerottolo, il buio compatto del cemento che la luce fioca di un lucernario all’ultimo piano cerca, invano, di spezzare.

Odessa

Nono piano

Al nono piano dello stesso palazzo vive Maxim, a casa di un amico. Maxim è stato al fronte in Donbass. È stato ferito alle mani durante un combattimento, ricoverato all’ospedale di Odessa e poi mandato in licenza per qualche tempo. Giudicato abile dalla commissione militare ospedaliera, sarebbe dovuto tornare al fronte. Ha disertato: “Al fronte non torno, è morte sicura. Mi nascondo, e come me molti altri. Me ne andrei volentieri dall’Ucraina, io la mia parte l’ho fatta. Non torno a combattere, il fronte è morte sicura. Voglio vivere, al diavolo i russi. Io la mia parte l’ho fatta, non mi possono accusare di diserzione. Ho visto la guerra, al fronte una volta è sufficiente. Ho una madre anziana, una fidanzata e mi voglio sposare, voglio avere tanti bambini, non voglio morire al fronte. Capisci? Io la mia parte l’ho fatta”.

Sul tavolino del soggiorno, un portacenere colmo di mozziconi e diverse bottiglie di superalcolici: come molte persone in Ucraina, Maxim passa il proprio tempo bevendo e fumando. Nel giro di pochi minuti, tracanna nervosamente 4 bicchieri di cognac, di pessima qualità. Non è consapevole del fatto che ormai è completamente alcolizzato; non può chiedere aiuto a un medico perché per farlo ha bisogno del libretto militare, che è al comando. Se va a ritirarlo, lo spediscono subito al fronte. Non ha i soldi per pagare un dottore privato.

Maxim esce sempre con il telefonino in mano, gli amici del quartiere lo informano della presenza della polizia militare, quella che verifica i documenti dei ragazzi che camminano per la strada e li recluta. Se c’è qualche soldato o qualche agente in giro, lui cambia strada. In centro non va, troppo pericoloso. Gli chiedo se sia possibile evitare in maniera legale l’arruolamento forzato. Mi risponde in maniera diretta e chiara: “No, non è possibile. Tu vai a passeggio, la polizia militare ti ferma, se non hai il libretto militare ti arruolano e il giorno dopo ti devi presentare al comando. Se non la fai, sei un disertore, come me. Oddio, un modo c’è – mi dice con un sorriso sornione – corrompi i poliziotti. Servono 5.000 dollari, ma è una cifra che paghi una tantum. Ti lasciano libero oggi, se domani ti fermano nuovamente, devi pagare di nuovo. Se poi sei in giro senza i documenti, ti portano direttamente al comando e vai subito in caserma…”

Non si stanca di ripetere, in maniera nevrotica e convulsa, che lui la sua parte l’ha fatta. E l’ha fatta per davvero. “Scrivi, scrivi per i tuoi giornali che io la mia parte l’ho fatta, che lo sappiano anche in Serbia e in Italia”, mi dice mentre ci salutiamo.

Quindicesimo piano

Roman è un volontario della Croce Rossa. L’ho incontrato due volte negli ultimi 2 anni, ha sempre avuto posizioni moderate, autonomiste e ha sempre considerato Odessa un mondo a parte rispetto al resto dell’Ucraina. Caldeggiava una federazione ucraina che garantisse agli abitanti del Donbass la possibilità di usare il russo come lingua ufficiale e di avere rapporti privilegiati con Mosca. Questa volta, Roman mi ha invitato a casa sua; pensavo che l’invito fosse una misura precauzionale volta a evitare la coscrizione, come nel caso di Maxim. Mi sbagliavo, Roman ha cambiato completamente il proprio punto di vista sulla guerra in corso. “Sono pronto ad andare al fronte. Mi volevo anche arruolare in un corpo speciale, lo stesso in cui è andato il mio migliore amico, Artur. Per una serie di questioni burocratiche e per la carenza di personale medico e paramedico a Odessa, non mi hanno preso e continuo a lavorare qui. Sono però pronto a partire”. Gli chiedo a cosa sia dovuto questo cambiamento di posizioni, lui che era sempre stato a favore del dialogo con i russi: “Vedi – mi dice con un volto estremamente serio – si poteva dialogare con i russi. Finché non sono arrivati i missili sui palazzi dei civili. Da un anno, cavo cadaveri dalle macerie. Gente innocente, che non ha fatto nulla di male. A lungo ho pensato sul da farsi: io sono di nazionalità russa. Sarei pronto a sparare sui miei connazionali?”. Roman fa una pausa e accende una sigaretta. Emette due boccate di fumo denso e continua il racconto: “Sì, senza problemi. Vedi, la questione è molto semplice: quelli che ci sparano addosso, che uccidono i civili, per me non sono russi. Non sono esseri umani, per cui noi abbiamo il dovere di difenderci”.

Il suo migliore amico, Artur, è stato ucciso l’estate scorsa al fronte. “Ci scrivevamo tutti i giorni. Artur era un poeta. La sera, anziché bere insieme agli altri, scriveva poesie e testi in prosa sul cellulare. Poi me li mandava. Lui scriveva in ucraino, io in russo; la cosa più naturale del mondo per noi. Nessun problema linguistico. Nessun problema nazionale. Due esseri umani, due amici, che comunicavano”. Roman mi fa leggere un testo di Artur. Molto toccante e poetico. Gli prometto che lo tradurrò e lo pubblicherò, sia in italiano sia in serbo. Ci salutiamo: egoisticamente, gli chiedo, se può, di non andare in guerra. Qualcuno deve difendere l’Ucraina, è vero, ma la perdita di un amico è qualcosa, per me, di inimmaginabile.  Lascio il palazzo, molto triste e desolato. Vado verso la stazione degli autobus con un tram semivuoto e ben riscaldato. Mi aspettano a Mikolaiv, è già tempo di lasciare Odessa.    


il reportage di Christian Eccher dall'Ucraina continua con la pubblicazione
del terzo articolo il 07/02/2025 dal titolo: "La surreale normalità di Mykolaiv fra missili e droni"

Il primo articolo è stato pubblicato il 03/02/2025:
"Da Uzhgorod la tradotta diretta all’inferno"
Christian Eccher
Christian Eccher è nato a Basilea nel 1977. Si è laureato in Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, dove ha anche conseguito il dottorato di ricerca con una tesi sulla letteratura degli italiani dell’Istria e di Fiume, dal 1945 a oggi. È professore di Lingua e cultura italiana all’Università di Novi Sad, in Serbia, e nel tempo libero si dedica al giornalismo. Si occupa principalmente di geopoetica e i suoi reportage sono raccolti nei libri Vento di Terra: Miniature geopoetiche, Esimdé e Kàrhozat. In Serbia è collaboratore assiduo della rivista di opposizione Danas

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