Qualcuno suona al campanello di casa. Sono in cucina, mi sento chiamare: “È per te mamma, uno scurone!”
Questo appellativo (oggi affettuoso e velatamente nostalgico) ha fatto la sua comparsa nel nostro lessico familiare quando uno dei miei figli aveva poco più di tre anni. Come spesso accade tuttora, mi ero recata al cancello di casa per sporgere una moneta a un signore nigeriano, fermandomi a scambiare due parole. Mio figlio, diffidente, era rimasto sulla soglia e al mio rientro mi aveva chiesto “Chi è quello scurone?”. Niente di dispregiativo, tantomeno razziale, piuttosto il punto di vista di un bimbetto preoccupato che dal basso della sua età aveva osservato quell’alto e robusto sconosciuto dalla pelle scura mentre parlava con la sua mamma. Certo mi aveva fatto sorridere, ma mi era venuta la pelle d’oca! Come estirpare un termine così politicamente scorretto – almeno per me – e altrettanto simpatico dal linguaggio di casa? Non ci sono ancora riuscita del tutto, per la connotazione affettuosa che la parola ha preso mio malgrado, ma nel tempo mi sono impegnata affinché queste persone avessero un nome e agli occhi dei miei figli da “scuroni”, sconosciuti e vagamente minacciosi, diventassero persone. Questo sì, questo l’ho ottenuto, e non è stato per niente difficile.
Al cancello oggi c’è Carlo, anche lui nigeriano, che non avevamo riconosciuto perché – ci spiega lui stesso – è stato in Germania per cinque anni. Non trovando lavoro in Italia era riuscito a trasferirsi lì, mi racconta di aver trovato un impiego in un ristorante italiano grazie alla buona conoscenza della lingua. Mi dice “Mancavano sei mesi per l’assunzione a tempo indeterminato, mi avrebbero potuto raggiungere mia moglie e i miei tre figli. È arrivato il covid, ristorante chiuso, gli alloggi in Germania costano troppo, sono tornato qui”.
Ora che ci conosciamo, ora che al campanello suonano Marco, Michael, Antonio, ora che all’uscita dal supermercato o all’imbocco del sottopasso pedonale saluto Collins, Paul, Cheedy, spesso mi fermo a parlare con loro per qualche minuto. Sono gentili, istruiti, pazienti e pieni di speranze. Alcuni mi hanno raccontato la loro storia, con un certo pudore, quasi a non voler pesare con tanta tristezza. Mi chiedono come sta la mia famiglia e come va il lavoro, mi augurano buona giornata, che io abbia qualcosa da dare loro o non ce l’abbia non fa differenza. Ci chiamiamo per nome, un po’ ci conosciamo.
Vorrei fare qualcosa, so che ascoltare e dare dignità anche solo con poche parole è già qualcosa, ma vorrei fare di più. Mi piacerebbe tenere per loro un corso di italiano, un corso gratuito per perfezionare la lingua, per imparare a scrivere, per destreggiarsi anche nelle situazioni formali, per sapersi presentare bene e per apprendere aspetti della nostra cultura che possano essere utili alla loro integrazione. Lo desiderano, lo chiedono spesso. Non ci riuscirò da sola, questo lo so. Spero che qualcuno mi aiuti.
Mi piacerebbe, a fine corso, andare a mangiare una pizza con i miei studenti.
Questa breve storia non parla di immigrazione, di scelte politiche, di diritti o di prima gli italiani… Tutto troppo grande, non ci entro, non mi permetto. È la storia familiare, personale, dell’evoluzione di un punto di vista infantile, immaturo e timoroso, che è cambiato con una semplice domanda: “Come ti chiami?”.