Cento metri, centocinquanta metri poi l’erba s’impiglia nelle catene. Sosta, armeggiamo con un cacciavite, ci sporchiamo di grasso, le zecche pasteggiano dentro i calzini. Non ce la faremo mai. Si prosegue con le bici a mano, Davide sfida a male parole ogni divinità e ogni consorzio delle acque d’Italia. Lo sfalcio lo fanno tre volte all’anno, ma non ne sono sicuro e sono convinto che l’ultimo eseguito risale al delitto Moro.
Cerco di elevare il mio compagno di giungla con una riflessione più alta del suo linguaggio, dico che con una piccola, neanche tanto spessa, barriera di alberi si potrebbe creare un paesaggio accettabile anche dal lato sud, verso il centro abitato. Una sorta di cornice bordeggiante del fiume, “una soasa” che attenuerebbe quegli spigoli crudi della lottizzazione attigua.
Rimontiamo in sella provati. Compaiono sulla riva opposta (la destra) dei begli edifici apparentemente abbandonati e una sorpresa. C’è ancora una passerella sospesa, stretta, metallica, senza fronzoli. È chiusa, nel senso che hanno piegato i ferri ma sembra solida e portante. Dico a Davide, ed invento come al solito, che una volta di là passavano i poveri “matti del Gris“ ed era per loro una delle poche occasioni di aria, di libertà rispetto al manicomio. Non è vero niente, poi vengo a sapere che serviva ai lavoratori dell’Istituto per andare a lavorare i campi posseduti dal Gris al di là del fiume.

 “Scolta Barbero e questa come a risolvemo?”. Track! Imbambolati. Ce l’autostrada e non c’è nessun, nessunissimo varco, passaggetto, niente da fare. Sotto al ponte non si passa neanche strisciando come una pantegana. “Scolta seguimo a rete e vedemo”. Davide si aggrappa alla rete di sicurezza dell’autostrada facendo attenzione a non pestare neanche un centimetro del terreno coltivato. Un calvario, anche linguistico, che non posso riportare. Ma poi il Dio degli arginauti premia. Un sottopasso addirittura automobilistico, buio basso e pericoloso ci consente di superare la bestia d’asfalto. Poco dopo, come dei ladri, sfruttiamo un fosso secco, e riguadagnamo l’argine.
L’erba torna alta e rende il camino impraticabile, ma chi se ne importa, per la seconda volta abbiamo battuto il nemico, su ferro e su gomma, della transitabilità degli argini. Un cane, poco sensibile al nostro entusiasmo, ci costringe ad una rapida accelerazione verso le terre dell’est.

Spiego a Davide che da queste parti c’era il lazzaretto, evocativo nome per indicare delle casette basse ricavate a loro volta da delle baracche della prima guerra mondiale, dove, per molti decenni abitarono i poveri in canna del paese. Tra questi ovviamente c’era la mia famiglia. “Strano, pensavo che te venissi dal Gris”. Gentile, non ho però il coraggio di raccontargli che effettivamente tutta la genia di mio bisnonno era pellagrosa e di temperamento, che dire, instabile. Ma neanche il tempo di blaterarne la storia che compare un altro miracolo. Un sentierino curatissimo sulla sponda, perfetto per ammirare le placide acque e l’ordinato paesaggio agricolo. Siamo sulla riva di Federico, eroico coltivatore bio e primatista regionale di intelligenza. Lui, e la sua cagnetta Milly, sono pacifici e anzi suppliscono al consorzio tagliando l’erba. Partiamo con una discussione così intelligente che Davide si scosta prudentemente. Mi dice che questa è la zona di reticolato Romano e che lui ogni tanto trova dei frammenti interessanti e adesso (e non c’entra niente) ha intenzione di fare una mostra d’arte proprio qui, e mi mostra i due metri e mezzo regolamentari distanti dall’argine, con l’intenzione di sensibilizzare il viandante (…) sulla fragilità dell’ecosistema dell’agricoltura, insomma le solite cose, ma in più con un’idea artistica. Gli suggerisco il nome “arginart”. “Scolta Biennae ara che manca un per de chilometri”. Ritorniamo nella savana, l’erba ormai ci sovrasta, stantuffiamo, begli alberi sull’altra sponda “pioppi stupendi!” “Ehi botanico, non avevi detto tigli prima?”. Evita il mio sguardo.
Dopo l’azienda di Federico, tipo Heidi, ecco il panorama agricolo stravolgerci. Immense serre, non ne vedo nemmeno la fine, una a ridosso dell’altra. Dentro si coltiva l’insalatina, quella che trovate già lavata e imbustata al centro commerciale. Strisce verdi di centinaia di metri, verdurina tutta uguale tutta perfetta. Non vediamo nessuno e magari ci saranno dei robot di notte… Sarà l’agricoltura del futuro, mettiamoci l’anima in pace.
Ma ecco compare un brutto ponte e la scritta stradale “Marcon”. Siamo arrivati: io faccio 12:06 chilometri, lui 13:04, ma chi se ne frega.

Davide si toglie mezzo chilo d’erba dalla tutina e fa tutto ringalluzzito “Adesso Pigafetta bisogna fare il giro completo, bisogna arrivare in laguna”.

Sì, certo non gli dico che quella volta Pigafetta l’ha finito sul serio il giro e invece a Magellano gli hanno tirato una freccia in mezzo agli occhi. Quelli di Marcon.

Otello Bison
Otello Bison scrive a tempo pieno dividendosi tra narrativa e divulgazione storica. Collabora al “ILDIARIOONLINE.IT” su temi ambientali e locali.

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