La hall della piccola pensione romana si va riempendo di parole, di risa, di idiomi sconosciuti, di volti dai tratti che riflettono l’infinita varietà antropologica. Andremo tutti insieme a cena fuori, intanto sto seduto sul divanetto e accanto me c’è Zahid. È naturale che ci scambiamo la conoscenza reciproca: all’appuntamento siamo arrivati in 104. Stesso gruppo, ma vite e percorsi esistenziali davvero diversi.
Una cinquantina di noi sono volontari del Giavera Festival, quello che molti conoscono per “Ritmi e danze dal mondo”; quello che da ventisei anni – principalmente per l’intuizione di don Bruno e l’alacrità creativa di Stefano – va in cerca delle similitudini umane. L’altra cinquantina raccoglie persone giunte tra noi da migranti. Odio terribilmente l’estraneità che circonda gli incontri casuali e in questa circostanza, fortunatamente, proprio non è possibile ignorarsi.
Sono soltanto due anni e mezzo che Zahid è in Italia, parla e comprende la nostra lingua già meglio di alcuni padani irriducibili. Troppi occidentali, cullati nell’individualismo, qui rinnegano per convenienza la propria filosofia naturale: considerano i “migranti” come un coacervo indifferenziato, certo notano il colore dell’epidermide ma trattano le loro vicende umane straordinarie con l’indifferenza di un film già visto troppe volte. Dunque ci fa più compassione nostro figlio, arrivato a pranzo un po’ più tardi perché, poverino, ha perduto l’autobus, che non le imprese di questi che attraversano l’Asia o magari l’Africa, soprattutto a piedi, e approdano in Italia. Mal contati, nel caso di Zahid, da Islamabad sono 7.000 chilometri avventurosi, più spesso disavventurosi. Vorrei sapere del suo viaggio fino a qui. Quanto ha impiegato, dov’è la sua famiglia, è scappato per motivazioni economiche o…, che progetti ha.
«Il mio viaggio? É durato tre mesi…». Annoto – azzardando – che è stato “fortunato”, mentre penso ad altri racconti più penosi. Però il conto non torna: è partito che aveva ventiquattro anni, ora ne ha trentadue, ma è in Italia solo da poco più di due anni. Qui la formula spaziotemporale di Einstein non c’entra. Cerco di capire meglio, lui sorride sempre e conferma:
«Sì, il viaggio è durato tre mesi». Soltanto che, tra una passeggiata e l’altra, lui ha trascorso due anni in Turchia, diciotto ore di lavoro al giorno a scaricare i tir a mani nude. E poi quasi quattro anni in Grecia, dove sono più spietati: prima imprigionato, poi occupato di straforo in una fabbrica di panettoni (sic!) per sole dieci ore e nel tempo libero a lavorare al mercato dell’ortofruttta. Col sorriso perenne, che qui appare come un’accusa che si discioglie nel passato, mi dice tutte queste cose tremende; fa segno alle bòtte ricevute dalla polizia, alla casella maledetta in quella specie di giro dell’oca tragico che dalla Croazia ti ricaccia indietro. Soltanto in Bosnia ha ricevuto un poco di solidarietà dalla gente, ma laggiù conoscono il prezzo della vita umana massacrata. Ha attraversato i Balcani ed è giunto in Italia. Come una pallina da ping-pong, alla ricerca di una qualche stabilità, prima di trovare sistemazione a Giavera, è stato a Milano, Pisa, Pordenone… Ha fatto mille lavori, al prezzo di quasi niente. Ha seguito le potature e le vendemmie e non è stato mai pagato: non ha ricevuto il compenso, ma meno male che il suo caporale è finito in galera. Magra consolazione.
Mi indica un suo amico africano che è giunto in Italia quando lui: «Subito si è messo a lavorare. Fa il lavapiatti e non parla per niente italiano.» Zahid la pensa diversamente. Ha un progetto chiaro: prima di tutto la scuola, poi la patente. Priorità per costruirsi un futuro meno dipendente. Punti di vista, mentalità diverse. Auguri, saggio pakistano. Parliamo ancora del suo viaggio via-crucis.
«Credimi, tutto questo non conta niente» lui dice. «Oggi è stato il giorno più importante della mia vita». Ha gli occhi che brillano.
«Ma tu sei cristiano?» chiedo titubante.
«Sono mussulmano, ma oggi ho cancellato tutto il passato. Tutto ricomincia oggi». Esiste solo l’oggi. Lo dice senza retorica, è profondamente sincero. Io, per mentalità così laico, sono preso da un sentimento di rispetto per quelli come lui. Ammetto: sono commosso mio malgrado. Non vi ho ancora rivelato che proprio in mattinata i volontari del Giavera Festival, insieme a questi amici rappresentanti di tanti popoli e corrispondenti diverse religioni, sono stati ricevuti in udienza privata da papa Francesco.
Proprio nella splendida sala Clementina, quella riservata agli incontri con le delegazioni più prestigiose, quella dove vengono esposti i papi, per l’ultimo estremo saluto, quando tocca. Un segno delle intenzioni e della scala di valori di quest’uomo prezioso. Con la rara saggezza che lo contraddistingue, ha pronunciato pacatamente:
“…la vostra iniziativa nasce dalla volontà di far conoscere l’esperienza vissuta, di farla circolare nel tessuto sociale, per contribuire a diffondere una cultura di accoglienza. Cultura dell’accoglienza contro la cultura dello scarto. Ce n’è tanto bisogno! Perché la realtà delle migrazioni nel nostro tempo ha assunto caratteristiche che a volte posso spaventare. Oggettivamente il fenomeno è molto complesso, e purtroppo ci sono gruppi criminali che ne approfittano; i migranti rischiano di essere strumentalizzati anche all’interno dei conflitti geopolitici. Allora cessano di essere persone e diventano numeri…”
Ha detto molto altro, col realismo semplice che gli è proprio. Non usa mai parole da clericale addomesticato. Ha desiderato stringere la mano, ad uno ad uno, a tutti noi. Ci ha guardati in faccia senza mascherina. Rompendo il protocollo, si è prestato persino ad un selfie con due ragazze: loro se lo sono stretto al braccio come un nonno benevolo. Abbiamo disteso la nostra immensa bandiera. Cucite insieme in un unico telo leggerissimo, ma resistente, ondeggiano le insegne di tantissimi paesi. Ognuno ritrova la propria. Sotto la gigantesca bandiera arlecchino continuano a prosperare le differenze, patrimoni di esperienze uniche, non le annichilisce in un’integrazione monotona e forse ingiusta. Mi vengono in mente le idee fruttuose di Alexander Langer che si intridono, si mescolano con quelle pronunciate da questo papa speciale, mentre in piazza San Pietro i bambini giocano a rifugiarsi sotto i “nostri” colori variopinti: il tetto simbolico per un mondo pacifico e senza steccati. Forse è solo riflesso di un’utopia, ma necessaria e vitale. Amen.