Il 30 novembre mio fratello ed io ci siamo fatti il vaccino, terza dose. Appuntamento 15,33 e 15,36. Siccome siamo orgogliosamente provinciali ci presentiamo prima, il dovere e la sanità pubblica meritano rispetto, ed è meglio arrivare un quarto d’ora in anticipo. A Villorba, il Palacomesichiama, un’architettura discutibile, ma ha degli spazi interni enormi. L’altra volta è andata bene, non dico puntualissimi ma quasi.
Mio fratello dice quindici volte che lui preferiva la prima volta a Lughignano che è più vicino e più coccolo. Dico che avranno le loro ragioni, l’avranno fatto per eliminare le code. E già. Quando parcheggiamo c’è qualcosa che non va, troppe auto, non troviamo posto, assistiamo ad una baruffa senza mascherina per una piazzola contesa. Strano.
A Villorba ci sono delle scale fatte da qualche designer malsano ma arriviamo all’entrata. 15,18. Si entra in un capannone grande come la nostra piazza ed è il delirio.
Centinaia e centinaia di persone sono ammassate verso una porta (piccola) e tutti chiedono informazioni. Corrono voci strane. Degli anziani sono ormeggiati sulle sedie. Si forma una coda strampalata, chiedo, ma nessuno sa perché sta in coda. Viaggiano mezze frasi “studenti, primo vaccino”. Poi “mancano i medici”. Poi “non ci sono i volontari, senza di loro…”. Mio fratello si mette l’FFP2 sopra la mascherina normale e si avvicina alla porta (sempre più piccola) e ottiene forse le notizie giuste. É tutto in ritardo, un’ora e mezza, chiamano loro e… ogni quindici minuti. Scopriamo che stanno chiamando quelli dalle 14,00 alle 14,15. Maledizione, sono le 15,30. Va bene, arretro, vado in fondo ma quelli che entrano mi chiedono delle informazioni, ho i capelli bianchi e rassicuranti, poi però non mi credono e vanno anche loro a pigiarsi verso la porticina. Più avanti, e lo uso come faro perché ha un appuntamento alle 15,15, ho un amico con la giacca a vento gialla (avete notato che tutti siamo vestiti di nero o di blu?). Lui è un eroe che accompagna la mamma di novant’anni.
Il delirio diventa pericoloso quando un volontario finalmente trova un megafono, monta su una sedia, tutti aspettano un salvifico e decisivo annuncio e lui ingenuo grida: “Fioi bisogna aver pasiensa”, sfiora il linciaggio, mi fa pena.
Il tempo passa, un freddo cane e finalmente alle 17 e qualcosa, lo intuisco dal sommovimento tellurico della folla, tocca a quelli delle 15:30. Perdo mio fratello e nessuno controlla la prenotazione. Altre discussioni e sento la mia fede democratica ondeggiare.
Alla fine, temperatura-pass-prenotazione (un’altra?) si entra in un altro capannone immenso. Stavolta però c’è il display, grande invenzione ragazzi, e mancano solo 150 numeri. Il tempo ripassa. Le 18,00. Mio fratello mi ridice un’altra decina di volte che Lughignano era meglio. Più coccolo. Poi una coda per la prenotazione (un’altra?) per il colloquio con il dottore. É gentile, mi dice che è mezza dose di Moderna e che non succederà niente. Codina. Vaccino! Punturina e quindici minuti di osservazione. Coda anche per la toilette, due sono intasate. Ultima coda per ritirare il certificato che però non è pronto e quindi bisogna fare un’altra coda per quelli che non sono stati stampati, misteri digitali. Mio fratello è uno degli sfortunati. Lo vedo molto provato, quattro ore prima era un uomo pieno di fiducia, ora ha difficoltà anche nel linguaggio.
Ne usciamo, è sera, e mi dico che insomma è un’emergenza e che se ci fossero stati gli alpini o la protezione civile all’inizio a filtrare non ci sarebbe stato quel carnaio contagioso… ma in cuor mio sono preoccupato per la mamma novantenne del mio amico.
Ore 19,15. Via verso casa finalmente e alla prima rotonda mio fratello sbaglia e prende la direzione per Oderzo. Vacillo.