Intervista all’attrice Margherita Mannino sul monologo che ha messo in scena e che è tratto dal libro “Fino a quando la mia stella brillerà”, scritto da Liliana Segre con Daniela Palumbo.
Il suo monologo riesce a raccontare in maniera semplice, anche ai ragazzi, qualcosa che per molto tempo era considerato indicibile: l’orrore della Shoah. Come si fa a narrare un tema così difficile?
Per me il discorso del teatro sociale ha un valore molto importante. Se facciamo questo mestiere è anche per portare al grande pubblico, piuttosto che ai ragazzi, in una maniera più facilmente fruibile delle storie che magari possono essere difficili e che se le studi a scuola possono sembrare noiose per una patina di didatticità, che magari può ostacolare uno studente ad entrare in empatia con ciò che si spiega o si racconta. E invece, tutte le volte che abbiamo fatto lo spettacolo con i ragazzi, loro stavano attentissimi, erano anche molto commossi, facevano domande anche molto intelligenti, che non ti aspetti. Devo dire che lo spettacolo ha proprio colpito nel segno, che quello che volevamo fare con questo spettacolo lo abbiamo fatto, perché siamo riusciti a portare questa storia al livello dei ragazzi. Perché poi racconta la storia di una ragazzina di tredici anni, per cui gli studenti delle medie piuttosto che delle superiori entrano molto in contatto con la Liliana bambina e ragazza, perché aveva la loro età.
Come è nato il suo incontro con la storia di Liliana Segre?
Io sento molto l’esigenza di questa storia che mi è rimasta molto impressa. A questo proposito devo dire che mi ci sono scontrata grazie a una persona che, ormai diversi anni fa, mi diede il libro della Segre. Io dovevo fare una lettura per dei bambini di una scuola elementare a Cison di Valmarino e la signora che si occupava della biblioteca mi aveva dato alcuni testi dai quali estrapolare alcuni brani. Uno di questi testi era Fino a quando la mia stella brillerà. Io non lo conoscevo. Quando l’ho letto ne sono rimasta molto colpita. Era da un po’ di tempo che volevo fare un monologo, volevo fare qualcosa di mio, volevo fare qualcosa da sola, volevo misurarmi con le mie capacità, con una storia che avesse un valore politico, storico, sociale. E questa storia a un certo punto mi ha incontrata. Ho detto: questa è proprio una storia che voglio raccontare. E quindi è nata l’idea. Poi ci ho messo un po’ di tempo per realizzarla, perché una cosa così non si fa dall’oggi al domani. Abbiamo parlato con la casa editrice e poi abbiamo chiesto a Daniela Palumbo, che è l’autrice del libro assieme alla Segre, se voleva fare lei l’adattamento teatrale di questo testo. Quindi lo spettacolo è scritto da lei e sono molto contenta di questo, perché volevo che ci fosse una matrice ufficiale dietro a questo lavoro. Quindi poi ci siamo confrontate molto con lei e con Lorenzo Maragoni, che ha curato la regia, sulla parte di scrittura. Avevamo delle idee e lei è stata molto brava perché ha messo nel testo, con il suo estro, quello che noi avevamo chiesto. E quindi ha fatto lei l’adattamento. Ci sono voluti due o tre anni, finché non ha visto la luce. Liliana Segre ha letto il testo, perché dopo averlo scritto, Daniela glielo ha inviato per chiederle se le andava bene. Lei ci ha risposto e anzi ci ha ringraziato per questo, dicendoci di essere delle piccole stelle della memoria che vanno avanti, queste candele, quelle di cui lei parla nel libro, che continuano a bruciare. E ci ha fatto molto piacere nell’avere il suo totale benestare.
Il racconto di Liliana Segre “bambina”, costretta a lasciare la scuola dopo l’emanazione delle leggi razziali, e la determinazione di Liliana Segre “adolescente” nel voler vivere a tutti i costi sono tra gli aspetti più interessanti della sua storia. A lei cosa ha colpito di più della sua straordinaria vicenda?
Ci sono varie cose. La prima è come una persona che ha subito tutto questo e che ancora adesso, o comunque fino a poco tempo, si pone rispetto agli altri, rispetto alla politica, rispetto al mondo che le sta attorno. E che comunque racconta quello che le è accaduto, lo testimonia, ha il coraggio di farlo e di rispondere a tutta una serie di offese e di manifestazioni di odio razziale che io trovo sconcertanti. Mi chiedo come faccia a mantenere questo aplomb. Ammiro molto una persona così. Lei lo dice che non riesce a perdonare, ma comunque riesce a parlare di ciò che le è accaduto e a condividerlo.
Un’altra cosa incredibile, di cui noi non ci rendiamo veramente conto, è quello che è riuscita a fare questa ragazzina di tredici anni. È scampata alla morte ad Auschwitz per un serie di concause. Innanzitutto perché in qualche modo, per certe cose, è stata fortunata. E per sopravvivere a quella cosa lì, devi essere molto molto fortunata. Ma oltre a questo devi avere una testa che non ti fa impazzire, che non ti fa crollare, e tutta una serie di cose psicologiche e mentali. E lei ha messo insieme tutte queste cose. Quando sono partiti dal binario 21 erano 605 e sono ritornati solamente in 22… E tutto questo l’ha vissuto una bambina. Quando lei racconta che si è svegliata e ha detto “voglio vivere”… Questa cosa della sopravvivenza, dell’istinto di sopravvivenza, uno lo può pensare, ma finché non lo vivi non potrai mai capire che cos’è. È veramente così e tu non riesci a comprenderlo, fai molta fatica a comprenderlo. Eppure a lei è successo questo miracolo. Lei ha fatto un clic nel suo cervello e ha detto “no, io sopravvivo”. E questa cosa ha anche significato chiudere tutto quello che c’era fuori. Lei ha detto “non vedo più niente, non dico più niente, non mi interessa di chi muore”. Vuol dire che quando torni a casa hai tantissimi sensi di colpa: “perché io sì e tutti gli altri no”? Lei ovviamente pensava a suo papà, a quest’uomo che non aveva più visto né alla sua destra né alla sua sinistra. Però, lei dice, dopo tutto questo tempo, l’amore che lui mi ha dato è quello che mi ha fatto andare avanti e mi farà sempre andare avanti. Mi ha colpito questa cosa dell’istinto di sopravvivenza, che è una cosa primitiva e che io trovo pazzesca. E poi l’amore come potere salvifico: l’amore del padre per lei, l’amore di lei per Alfredo, l’amore che salva la vita.
Il teatro ha una funzione civile straordinaria nella trasmissione della memoria della Shoah e in scena sono presenti solo il suo corpo, la sua voce e pochi e semplici oggetti. È stata una scelta ben precisa?
In realtà all’inizio avevamo solamente una scatola, giocavamo con una scatola dei ricordi. Poi l’abbiamo tolta perché quando ci siamo rimessi a provare, abbiamo trovato quest’altra soluzione che ci piaceva molto. Volevamo intanto per esigenze tecniche avere poche cose, ma in realtà era anche una mia idea. Volevo che qualche oggetto ci fosse, ma che fosse versatile, che lo si potesse usare in una continua trasformazione, in modo tale da aggiungere una forma di linguaggio allo spettacolo. C’è quello del racconto, la parola; c’è quello musicale, la musica e i suoni; e c’è questa parte visiva che è evocativa, ma è qualcosa che puoi vedere: vedi la casa, il triciclo, piuttosto che il treno, piuttosto che Auschwitz. Queste cose evocano un po’ questi passaggi, rimanendo molto semplici, molto stilizzati, ma un po’ accompagnano il racconto su un altro piano. Ci piaceva che l’oggetto fosse sempre lo stesso, ma che si potesse trasformare.
Due anni fa, a conclusione del suo discorso al Parlamento Europeo, Liliana Segre inviava ai suoi futuri nipoti ideali un semplicissimo messaggio: di essere in grado, con la loro responsabilità e la loro coscienza, di essere come quella farfalla gialla, disegnata da una bambina di Terezin, che volava sopra ai fili spinati. Dopo ottant’anni da quegli eventi, lei è ottimista rispetto a questo messaggio?
Da un lato, per come vanno le cose, è vero che ci sono una serie di situazioni un po’ più lontane da noi, ma che prima o poi saranno più vicine, che vanno male. Basti pensare a quello che sta succedendo al confine tra Bielorussia e Polonia, piuttosto che in Africa o in Afghanistan. Ce n’è tanta di strada da fare, ma non è neanche vero che non sia stata fatta o che stiamo tornando indietro. I rischi ci sono sempre, ma non possiamo dire che la società di adesso sia quella di cinquant’anni fa. Ci sono una serie di cambiamenti che sono stati il frutto di lotte e di battaglie. Pensare che si possa tornare indietro, questo no. Certo in Afghanistan è successo questo, ma io non vorrei essere pessimista. Vedo i ragazzi, questi giovani che ora si battono per l’ambiente e che sono più giovani di me: sono generazioni che stanno facendo delle battaglie che hanno certo altri obiettivi – non siamo nel Sessantotto – ma adesso c’è un’esigenza più grande che è la sopravvivenza di tutti. C’è questo grosso movimento e se ne parla solo perché sono stati i ragazzi giovani a portare questo problema agli alti livelli. Per cui io un po’ di sano ottimismo lo metterei. Non è tutto così brutto, non va tutto così male.