La “leggenda” pasoliniana – così come è stata elaborata da Pier Paolo Pasolini stesso – vuole che il “click” poetico sia scattato un giorno, a scuola, quando un supplente di lettere lesse delle poesie di Arthur Rimbaud. Da quel momento, Rimbaud è diventato un riferimento per Pasolini, un modello forse più di vita che di stile ma che non si è mai sbiadito. Per esempio, nel film Teorema, l’angelo-dioniso che compare in scena e sconvolge la vita dei borghesi di cui è ospite, stringe in mano il libro di poesie di Rimbaud, ed esso stesso è un’incarnazione del “giovane dalle suole di vento”. Ma vi è un altro aspetto che caratterizza il legame tra i due poeti, più controverso forse: nel finale di Una stagione all’inferno, Rimbaud asseriva in un verso divenuto celebre che il dovere del poeta fosse di “essere assolutamente moderno”; Pasolini sembra riprendere e quasi citare alla lettera questa indicazione, in Poesie mondane, (contenuta nella raccolta Poesia in forma di rosa, Garzanti 1964): asserisce, infatti, di essere “più moderno di ogni moderno”. Come molte altre cose nella vita del poeta friulano, questa affermazione assume un aspetto paradossale e contraddittorio, dal momento che la poesia si apre con un verso in cui dichiara con provocante orgoglio di essere “una forza del passato” per poi chiudere dicendo di esser “nato dalle viscere di una donna morta” e di vivere nella “Dopostoria”:

Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d’ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più

L’assoluta modernità predicata da Rimbaud coincide, in Pasolini, con il rifiuto del presente e delle illusioni dello “sviluppo” (concetto ben diverso, come preciserà in Scritti corsari, dal progresso). Questa cifra “antimoderna” è riscontrabile fin dall’esordio poetico del 1942 con Poesie a Casarsa: l’antimodernismo di Pasolini, prima ancora di rivelarsi negli anni ’60, ha dunque le sue radici nell’intima adesione al mondo contadino del Friuli.

Ma cosa si intende quando si parla di antimodernismo? In generale, è un atteggiamento culturale che tende a rigettare il progresso in quanto esito provvidenziale della Storia, un atteggiamento che nasce con Leopardi, Baudelaire, Nietzsche e che contrasta, smitizza, deride “il paganesimo degli imbecilli”, le “magnifiche sorti e progressive” di quel secolo “superbo e sciocco” destinato a fociare, rivelando tutte le sue contraddizioni, nel ‘900, con le due guerre mondiali e il loro lugubre corollario di morte e distruzione (che ancora fatichiamo ad archiviare).

Questo tarlo antimoderno e antiborghese ha una sorta di poetico manifesto in un passo del filosofo tedesco Walter Benjamin. Nelle sue Tesi di filosofia della storia scrive:

“C’è un quadro di Klee che s’intitola ‘Angelus Novus’. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”

Non sono mancate perplessità e critiche a Pasolini per queste sue posizioni. Calvino lo rimproverava di avere nostalgia dell’Italietta, Maurizio Ferrara lo accusava di nutrire rimpianto per una mitica età dell’oro (e tralasciamo altre e più gratuite accuse). Anche recentemente, ne L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio, 2012), Francesco Cataluccio, sotto la voce “Nostalgia”, scrive: “Le idee di Pasolini (non la sua arte: che ha raggiunto in qualche occasione esiti di grande livello) sono quanto di più pericoloso abbia toccato la sinistra, perché il suo mito porta verso un indirizzo politico ambiguo e regressivo… L’idea di progresso, come la intendevano i rivoluzionari romantici e i socialisti positivisti, si è sicuramente molto ridimensionata, ma non dovrebbe esserlo al punto tale da pensare che si stava meglio nel passato!”

Senza entrare troppo nel merito, si potrebbe obiettare, con le parole di Gianni Scalia, che “la presunta tendenza alla regressione… è piuttosto l’intuizione della degradazione del moderno… Non c’è volontà di un ritorno al passato naturale o storico (che infatti è perduto), ma la coscienza del sintomo del fallimento del futuro in quanto progresso, sviluppo e riproduzione capitalistici…. Il preteso e imputato atto regressivo è per Pasolini l’unico atto rivoluzionario possibile, cercato, tentato, fallito… di invertire, rovesciare il versus di questo progresso, di questa storia, di questa società.” (Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti 1977).

Ciò che dice Scalia, lo si ritrova nella tetra riscrittura degli anni ‘70 che Pasolini fece con gesto quasi autolesionista delle sue prime poesie (La nuova gioventù, Einaudi, 1975):

 “I plans un mond muàrt.

Ma i no soj muàrt jo ch’i lu plans.

Si vulin zì avant bisugna ch’i planzìni

il timp ch’al pòs pì tornà, ch’i dizìni di no

a chista realtàt ch’a ni à sierat

in ta la so preson…

(Significato del rimpianto)

Piango un mondo morto. Ma non sono morto io che lo piango. Se vogliamo andare avanti, bisogna che piangiamo il tempo che non può più tornare, che diciamo di no a questa realtà che ci ha chiusi nella sua prigione…

Negli gli anni ’30, il giovane Pasolini che passa lunghissime estati a Casarsa, paese della madre, incontra l’anima dei contadini friulani: “Difficilissima anima, prodotto di una civiltà diversa dalla nostra, che ci vive accanto senza possibilità di scambio!” (Quaderni rossi del 47). Fin da subito, egli mira a collegare il friulano alla radice romanza, per liberarlo dalla tradizione vernacola e dargli statuto di lingua: la visione lineare e progressiva della storia è rifiutata, in nome di un recupero di radici remote fuori dal tempo: “Così la lingua stessa, la pura parlata dei Casarsesi, potè divenire linguaggio poetico senza tempo, senza luogo, tramutarsi in un vocabolario senza pregiudizi, e pieno invece di dolci violenze estetiche… Per noi ormai lo scrivere in friulano è un fortunato mezzo per fissare ciò che i simbolisti e i musicisti dell’Ottocento hanno tanto ricercato… cioè una “melodia infinita”, o il momento poetico in cui ci è concessa un’evasione estetica in quell’infinito che si estende vicino a noi.” (“Il Stroligut” del 2 aprile del 1946)

Attraverso il linguaggio del friulano, è possibile per il giovane poeta attingere alle fonti stesse dell’universo contadino. La scoperta di questa realtà al di fuori dei confini temporali, confluisce nel primo libro di poesie, Poesie a Casarsa (1942, Bologna), in cui questa dimensione del tempo e del linguaggio si traduce in una sequenza di visioni di rara bellezza e contemporaneamente acquisisce la valenza di una sorta d’imprinting. Nelle Poesie a Casarsa, il tempo non si muove ma si ripete in eterno, come il riso dei padri negli occhi dei fanciulli. Casarsa trema di un tempo antico, eterno, sempre ritornante.

Sempre chè tu ti sos,

ciampana, e cun passiòn

jo i torni a la to vòus.

“Il timp a no’l si mouf:

jot il ridi dai paris,

coma tai rams la ploja,

tai vuj dai so frutins”.

(Tornant al paìs)

Sempre la stessa tu sei, campana, e con sgomento ritorno alla tua voce. “Il tempo non si muove; guarda il riso dei padri, come nei rami la pioggia, negli occhi dei fanciulli”.

Durante gli anni ’60 e ’70, la rivendicazione del mito in chiave di opposizione all’universo neocapitalista ritornerà con sempre maggior consapevolezza, nel cinema come nella poesia, rivestendo un ruolo rabbiosamente antiborghese. Il rifiuto della storia e delle sue consolazioni, va di pari passo con quello che Pasolini definisce, in una lunga intervista con Jean Duflot (Il sogno del centauro, Editori Riuniti 1983), il mito della natura: “La mitizzazione della natura implica la mitizzazione della vita qual era concepita prima dell’era tecnologica e industriale.” Per poi aggiungere, in modo perentorio: “è realista solo chi crede nel mito e viceversa. Il mitico non è che l’altra faccia del realismo.” Questi temi caratterizzano le opere degli anni ’60, quando Pasolini inizia a parlare di omologazione culturale e antropologica, di fascismo dei consumi, di neocapitalismo. Nella raccolta già citata Poesie in forma di rosa, troviamo questa poesia che sembra ricapitolare il rapporto con un mondo contadino oramai destinato a sparire (e insieme a quel mondo, il mito stesso):

Ché

io, del Nuovo

corso della Storia

– di cui non so nulla – come

un non addetto ai lavori, un

ritardatario lasciato fuori per sempre –

una sola cosa comprendo: che sta per morire

l’idea dell’uomo che compare nei grandi mattini

dell’Italia, o dell’India, assorto a un suo piccolo lavoro,

con un piccolo bue, o un cavallo innamorato di lui, a un piccolo

recinto, in un piccolo campo, perso nell’infinità di un greto o una valle,

a seminare, o arare, o cogliere nel brolo vicino alla casa

o alla capanna, i piccoli pomi rossi della stagione

tra il verde delle foglie fatto ormai ruggine,

in pace… L’idea dell’uomo… che in Friuli…

o ai Tropici… vecchio o ragazzo, obbedisce

a chi gli dice di rifare gli stessi gesti

nell’infinita prigione di grano o d’ulivi,

sotto il sole impuro, o divinamente vergine,

a ripetere a uno a uno gli atti del padre,

anzi, a ricreare il padre in terra,

in silenzio, o con un riso di timido

scetticismo o rinuncia a chi lo tenti,

perché nel suo cuore non c’è posto

per altro sentimento

che la Religione.

Il trauma della scomparsa dell’universo contadino, sotto i colpi di maglio del neocapitalismo, porterà il poeta a reagire con veemenza di fronte a quel vulnus. L’ultimo Pasolini, quello della riscrittura delle poesie friulane in chiave apocalittica, vera e propria abiura, ridà vigore e attualità al mito e alla tradizione come forza polemica e conoscitiva. “Pasolini in sostanza testimonia di una storia finita e giudica l’avvento di una mostruosa “Dopostoria” rovesciando così la tradizione e il passato in negazione attiva di un presente senza futuro” (G. Ferretto, L’universo orrendo, Editori Riuniti 1976).

Lasciamo, per chiudere, la parola (poetica) a Pasolini, con alcuni versi tratti da “Preghiera su commissione”, in Trasumanar e organizzar (Garzanti 1971),:

Caro Dio,

liberaci dal pensiero del domani.

[…]

Caro Dio,

l’idea del potere non ci sarebbe se non ci fosse l’idea del domani;

non solo, ma senza il domani, la coscienza non avrebbe giustificazioni.

Caro Dio,

facci vivere come gli uccelli del cielo e in gigli dei campi.

Nicola De Cilia
nato a Treviso, insegna presso il Liceo Giuseppe Berto di Mogliano Veneto. Collaboratore de «Lo Straniero», scrive attualmente su «Gli asini», riviste entrambe dirette da Goffredo Fofi. È autore di un’inchiesta su educazione e rugby, Pedagogia della palla ovale (edizioni dell’asino, 2015) e del romanzo Uno scandalo bianco (Rubbettino, 2016). Ha inoltre curato un’antologia dedicata a Giovanni Comisso, Viaggi nell’Italia perduta (edizioni dell’asino, 2017), e due libri di Nico Naldini, Alfabeto degli amici (l’ancora del mediterraneo, 2004) e Come non ci si difende dai ricordi (Cargo, 2005). Nel 2018, ha pubblicato con Ronzani Editore, a cura di Maria Gregorio, la raccolta di saggi Saturnini, malinconici, un po’ deliranti. Incontri in terra veneta. Nel 2019 è uscito, sempre per Ronzani, Geografie di Comisso. Cronaca di un viaggio letterario, a cura di Maria Gregorio.

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