L’attuale emergenza idrica, che regolarmente si ripresenta con una frequenza sempre più inquietante, mette prepotentemente in luce il problema dell’acqua, meglio della sua mancanza e del nostro rapporto con la preziosa molecola formata da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Come d’abitudine nel nostro paese il problema viene affrontato solo quando si presenta (siamo maestri riconosciuti nelle emergenze ma scolari ignoranti nella prevenzione) per sparire poi nel dimenticatoio alle prime piogge (se arrivano).
Di solito del cosiddetto oro azzurro si parla poco. Al massimo gettiamo qualche occhiata distratta all’ennesima siccità in qualche parte dell’Africa (tanto ci sono abituati) e per il grande pubblico sembra che l’unica domanda da porsi in merito all’acqua sia: liscia o gassata? Ma non è sempre stato così.
Dell’importanza dei fiumi e più in generale del rapporto fra acqua e territorio se n’erano occupate nel lontano 1978, alcune fra le intelligenze più vivaci della Marca Trivigiana di allora, in primis Cino Boccazzi e Alberto Passi che con Mario Bruni si inventarono I Quaderni del Sile, la prima rivista italiana di potamologia, cioè la scienza che studia i fiumi. Il comitato di redazione era di tutto rispetto potendo contare su nomi come Beppo Maffioli e Giuseppe Mazzotti mentre il comitato scientifico vantava docenti delle università di Padova e Venezia, contributi di Italia Nostra, del WWF e del CNR e tra i numerosi collaboratori troviamo autorità come Manlio Brusatin, Gherardo degli Azzoni Avogadro, Enzo Dematté (poteva non esserci?), Gaetano Lanaro ed Eugenio Manzato. Insomma, fu un avvenimento culturale straordinario che per la prima volta portava in primo piano l’esigenza di conoscere i problemi, dibattere e proporre soluzioni su un bene fondamentale come l’acqua. Erano anni nei quali l’ecologia entrava prepotentemente nel vocabolario comune e con molta più fatica anche in quello politico. Nel 1976 aveva visto la luce la mitica Legge 319, più conosciuta come Legge Merli, prima disciplina organica in materia di acque nell’ordinamento italiano, con la quale si avvertiva per la prima volta l’esigenza di prevedere e provvedere ad un’adeguata tutela alla risorsa idrica.
La normativa indicava in maniera dettagliata le sostanze inquinanti, ponendo dei limiti al loro scarico nelle acque e alla loro concentrazione e si disponeva inoltre che lo scarico effettuato in assenza della necessaria autorizzazione, concessa esclusivamente agli scarichi rispettosi dei limiti di accettabilità, fosse sempre e comunque soggetto di sanzione penale. Niente male per un paese abituato a considerare i fiumi come discariche a cielo aperto anche se l’applicazione pratica della legge non fu facile e gli effetti cominciarono a vedersi solo a metà degli anni Ottanta. Caratteristica pregevole dei Quaderni del Sile fu l’estrema varietà di approccio al bene acqua, che spaziava dall’archeologia alla botanica, dall’itticoltura ai percorsi turistici, dalla storia delle legislazioni fluviali alla gastronomia passando per la letteratura. Non mancavano inoltre contributi importanti volti alla salvaguardia e al recupero del patrimonio architettonico fatto non solo di ville ma anche di preziose abitazioni rurali. Naturalmente gli orizzonti non si limitavano al territorio veneto o italiano ma ponevano interessanti confronti con altre realtà europee, presentando soluzioni che potevano costituire da modello a casa nostra. La rivista rimase nelle edicole per qualche anno ed ora è diventata prezioso oggetto da collezione. Di acqua si tornò a parlare dalle nostre parti nel 1996 con la Carta di Monastier, atto fondativo del “Centro Internazionale Civiltà dell’Acqua”, promosso dalla Regione Veneto, dalle province di Belluno, Treviso e Venezia, dal comune di Mogliano Veneto (sindaco Diego Bottacin), da vari consorzi di bonifica e dalla Fondazione Benetton Studi e Ricerche. All’atto della sua costituzione il centro aveva la sua sede a Villa Albrizzi Franchetti, sul Terraglio ma poi per diversi anni trovò casa nelle ormai demolita Villa Longobardi a Mogliano Veneto.
Tra le molte dichiarazioni d’intenti la Carta recitava: “L’acqua è simbolo eterno della vita, luogo della indispensabile riconciliazione tra uomo e natura, materia primigenia, forza di evoluzione, dominio della ricerca scientifica, della sperimentazione dell’ingegno umano e dell’ispirazione artistica, condizione per ogni insediamento umano. Eppure, oggi l’acqua per molti è soprattutto merce. (…) L’acqua, fonte di vita, bene indispensabile ad ogni essere vivente, è sempre più carente e di scarsa qualità. Oltre alla siccità quantitativa si affaccia una “siccità qualitativa”, che può diventare oggetto di gravi conflitti, fra diversi utenti a livello locale, fra diverse nazioni a livello internazionale, quando il comune pacifico uso di una risorsa transfrontaliera diventa impossibile. L’evoluzione di tali conflitti, anche nei casi più attuali, dipende essenzialmente da fattori culturali, nonché dalle diverse percezioni del valore dell’acqua nei vari contesti etnici e sociali.”. Sembrano parole scritte oggi. L’acqua, dunque, ritornava ad avere l’importanza che merita, anzi qui si preconizzava addirittura una nuova Civiltà dell’Acqua come lo sono state in passato quelle della mezzaluna fertile, dei nativi americani o, senza andare tanto lontano, della stessa Serenissima Repubblica di Venezia. Ma quali sono i fattori culturali che è necessario stimolare oggi per rendere patrimonio comune il rispetto per il bene acqua? Innanzitutto, una più diffusa consapevolezza delle dimensioni del problema: di acqua ce n’è sempre meno e nonostante il meraviglioso globo azzurro della Terra vista dallo spazio, la percentuale di acqua dolce sul totale è di appena del 2,5% di cui solo l’1% potabile.
Se poi consideriamo che circa il 70% dell’acqua dolce proviene dai ghiacciai e dallo scioglimento delle nevi, le sempre più frequenti e scioccanti immagini sulla velocissima sparizione delle grandi masse glaciali dovute al riscaldamento globale non possono che suggerirci funeree considerazioni sulla futura disponibilità d’acqua. A meno che non si riducano drasticamente sia gli sprechi macroscopici (quasi la metà dell’acqua che viaggia nelle tubature viene perduta) sia quelli microscopici riguardanti tutti: quanti chiudono il rubinetto mentre si spazzolano i denti? Quanti preferiscono il bagno alla doccia? E si potrebbe continuare. Insomma, nonostante l’acqua costi poco, forse troppo poco (lo so, sto dicendo una cosa antipatica) e sembri inesauribile, non dobbiamo mai dimenticare che il suo ciclo di riformazione che ha funzionato per miliardi di anni oggi viene messo in crisi dalle attività umane, sia con l’inquinamento di laghi e fiumi che con l’emissione in atmosfera di gas serra che portano ad un continuo innalzamento della temperatura media. In conclusione, mi chiedo e vi chiedo: e se i fattori culturali di cui si parlava richiedessero radici ancora più profonde che non la semplice presa di coscienza del problema. Radici che forse affondano in un passato contadino non troppo lontano, quando il rispetto per la natura e i suoi cicli era fondamentale per la stessa sopravvivenza della comunità. Noi lo abbiamo troppo frettolosamente messo da parte in nome di una logica che rifiuta ogni valore che non sia pratico e venale e che considera il territorio e tutto ciò che significa solo come proprietà (misurabile in euro al mq) senza per questo assumere alcuna responsabilità per il suo mantenimento e la sua conservazione. Chiudo alzando di molto il livello di queste considerazioni con alcuni versi di Andrea Zanzotto, che delle trasformazioni del paesaggio agreste fu dolente cantore:
La va dò l’ora e la lava Co l’acqua che la fila via, l’acqua che anca de ‘sta vita e no sol de ste poche nostre robe la ne fa pulizhia (dal poemetto dialettale Mistieròi)