Non è vero che il tempo scorre uguale per tutti. Quando lo spazio, individuale o collettivo (e ancor più se abbinati), cambia in modo traumatico identità e diventa mobile, incerto, ostile, spazzando via o spostando confini, vite e destini, anche la dimensione temporale viene a modificarsi. Il filo invisibile che scandisce il divenire del singolo, come di un popolo, si impiglia laddove la geografia viene riscritta dalla storia, indirizzata dalla politica, quindi dall’uomo. Si spezza inesorabilmente. Ogni fatto accaduto, ogni scelta compiuta, escono dall’ordine naturale delle cose, smarriscono il loro senso comune agli occhi delle persone. La vita, precipitando in un confuso vuoto esistenziale, perde di continuità e cerca nuovi punti di riferimento. Si creano un “prima” e un “dopo” senza punti di sutura. La grande frattura resta scomposta anche quando si pensa di esserne guariti. Questo, è quel che sembra capitare alle due protagoniste, diversissime tra loro solo caratterialmente, di “La mia casa altrove” (Bottega Errante Edizioni, Udine 2021, pp. 336, euro 17,00 ), romanzo d’esordio della triestina Federica Marzi.
Norina, esule istriana degli anni Cinquanta, invecchia sul Carso che avvolge la città altoadriatica con la mente perennemente rivolta all’indietro. Amila, profuga bosniaca degli anni Novanta, cresce guardando ostinatamente avanti in una Trieste che l’ha accolta adolescente con la famiglia scappata all’ultimo minuto dalla pulizia etnica nel suo Paese d’origine. Sono loro a dare anima e corpo a una trama costruita con forza narrativa incalzante e tono lieve, che trascina l’attenzione del lettore sulla cresta di uno stile agile e penetrante al tempo stesso, ora lirico e svagato ora asciutto e profondo nel tratteggio psicologico dei personaggi e nella ricostruzione delle loro storie complicate. Da perfetta padrona di casa in una Trieste che è anche una straordinaria serra antropologica di lingue, culture e tradizioni trapiantate dai mondi più disparati e traumatizzati, Federica Marzi si muove con la sapienza della donna di frontiera che racconta storie di frontiera.
Cosa unisce Norina e Amila? Il bisogno, innanzitutto. Norina di avere un aiuto per gestire la salute malandata del marito Mariano, conosciuto e sposato ai tempi della comune convivenza nel campo profughi di Padriciano. Amila di trovarsi un lavoretto qualunque pur di sottrarsi al rito forzato dell’annuale ritorno per le vacanze di famiglia a Sarajevo e godersi una normale estate italiana. In secondo luogo, un banale e per fortuna non grave incidente stradale di cui resta vittima la ragazza bosniaca guidando (di nascosto) l’utilitaria dell’anziana esule da Buie. Un fatto imprevisto che spalanca alle due donne la porta sulle rispettive vite. E soprattutto sul loro personale “altrove”. E’ la terra abbandonata da entrambe a causa di una guerra, l’una mondiale l’altra circoscritta ai Balcani, a fare da continuo sfondo ai ricordi, alle ferite ancora ben incise nella memoria, alle recriminazioni, alle ossessioni e ai rimpianti. E’ come un gioco psicologico in un labirinto di specchi, nel quale l’autrice sembra accompagnarci proprio con l’intenzione di farci sbattere il muso contro verità nascoste, realtà ignorate, drammi dimenticati. Norina ha visto la sua gioventù fiorire e spezzarsi nei luoghi delle foibe, del terrore nei confronti dei “nemici del popolo”, dell’odio per gli italiani “fascisti” a prescindere. Amila abitava a un’ora di macchina dalla Srebrenica del genocidio anti-musulmano. Tutte e due hanno dovuto ricostruirsi un futuro in un luogo diverso, che poi diventa casualmente lo stesso: Trieste.
Impossibile non tenere conto delle evidenti differenze che contrassegnano l’esperienza di vita delle due donne: il gap generazionale, il diverso contesto storico dei fatti, l’evoluzione sociale, la mutata mentalità, la diversità di prospettive portate dalla globalizzazione post-guerra fredda rispetto alle più limitate opportunità presenti nell’Europa divisa fra due blocchi. Mezzo secolo divide l’esodo degli istriani e quello dei bosniaci. Tragedie non assimilabili. Ma il senso di inquietudine, di spaesamento, di estraneità derivanti dall’approdo in un “altrove” che può rivelarsi nuova opportunità come pure tomba di ogni illusione, è lo stesso. E’ un sentimento perenne e trasversale alle epoche storiche e alle origini etniche, alle lingue e alle religioni professate, se professate. L’originalità creativa di Federica Marzi sta proprio in questa sua capacità di mettere in correlazione simbolica e comunicazione emotiva storie, spazi e tempi lontani e a prima vista inconfrontabili. Agevolata certamente dalla sua triestinità multiculturale. Dalla natura cosmopolita e ospitale di una città diaframma strategico fra Est e Ovest. Una realtà urbana e umana unica nel suo genere in Italia, per essere stata dopo il 1945 la meta più prossima e la sentinella per antonomasia della “madre patria” per migliaia di esuli giuliano-dalmati scappati dalla Jugoslavia di Tito, e “nuova patria”, o semplicemente luogo provvisorio di soggiorno o transito, ancora oggi, per i tanti profughi più recenti.
Con un occhio decisamente più focalizzato sulle migrazioni contemporanee, l’autrice declina il concetto di “casa altrove” nella formula originale della “stranieritudine” di cui la giovane Amila prende coscienza quando si accorge che sta barando con sé stessa, e la questione che le si pone non è tanto “di affermare un diritto di scelta, ma di scegliere”. Non “di volere, ma sapere”. Quando capisce che la sua condizione è “un misto di stranieraggine e rettitudine. Quella era lei. C’era tutto lì dentro, di sé, della sua famiglia, della sua storia”. Il tema è intrigante, per tanti versi nuovo, e potremmo definirlo come il “coraggio del ritorno”. Un coraggio mancato, viceversa, a Norina. Che, infatti, intristisce rassegnata nel suo eremo piantato in mezzo al Carso, rimuginando su un amore di gioventù, l’unico suo vero grande amore, spezzato, tradito, e mai più dimenticato. Anche la giovane dijasporka Amila cerca l’amore, un grande amore, e lo trova dove e quando meno se lo aspetta. Proprio grazie all’intreccio momentaneo con le vicende famigliari di Norina, e al giallo connesso della ricerca di una figura maschile ricorrente, e sfuggente, per tutto il romanzo. Federica Marzi ha il dono di accompagnarci con un velo di sottile ironia e una prosa sempre appropriata nei meandri più sotterranei dell’animo di chi è costretto alla ridefinizione di sé, causa involontario taglio delle radici. A dare risposta “alle molte domande importanti poste agli adulti” anche da Amila quando “era stata ancora una bambina bosniaca e poi una ragazza italiana. Una era stata più urgente di altre: com’era potuto succedere? (…) Chi erano i responsabili della guerra? Cosa pensavano, dove vivevano e che cosa dicevano la sera ai loro bambini? (…) cosa avrebbero avuto da dire, per esempio, a una come lei?”.
Se c’è una lezione, o un messaggio, che può seguire al sigillo dell’ultima pagina de “La mia casa altrove”, questa potrebbe essere il provare a chiederci quanto le stesse domande che rimbombano nella testa di Amila, divorino l’animo delle migliaia di sconosciuti che, sulla rotta dei Balcani piuttosto che alla frontiera fra Messico e Stati Uniti, in Africa o in Asia, tentano il salto in un mondo più fortunato e più giusto di quello dal quale fuggono. L’Europa davanti a tutti. La stessa Europa liberale in cui vediamo affievolirsi sempre più ciò che la distingue dalle autocrazie e dalle dittature: il suo essere, o essere vista come, un approdo sicuro di solidarietà, di umanità, di democrazia.